Ancora una pronuncia della Corte europea dei diritti umani (Cedu) sul tema della violenza alle donne (sentenza del 13 febbraio 2025 causa P.P. vs Italia). È importante però evidenziare che il negativo giudizio della Corte sul sistema investigativo-giudiziario italiano “fotografa” il contesto nazionale in materia temporalizzato alla prima decade degli anni 2000, (l’iniziale denuncia della vittima è datata 2009 per fatti verificatisi dal 2007); nel mentre la realtà attuale è certamente caratterizzata da un netto slancio in avanti, propulsivo e migliorativo della sensibilità normativa e sociale sull’argomento.

Nella pronuncia in commento, la Corte ha innanzitutto ribadito alcuni princìpi generali, affermando che gli Stati hanno un obbligo positivo di istituire e di applicare “effettivamente” un sistema di repressione di qualsiasi forma di violenza domestica, e di offrire delle garanzie procedurali sufficienti alle vittime. Ha altresì rimarcato la particolare diligenza che richiede la disamina delle denunce per violenza domestica, sottolineando che spetta ai giudici nazionali tenere conto della situazione di precarietà e di particolare vulnerabilità – morale, fisica o materiale – della vittima, e, di conseguenza, valutare la situazione quanto più rapidamente possibile.

Analizzando il caso di specie, la Corte Edu ha fortemente stigmatizzato il comportamento complessivo delle istituzioni italiane, parlando di “passività giudiziaria” incompatibile con il quadro normativo di riferimento. Riepilogando i fatti, la Corte ha osservato che, in risposta alla denuncia della vittima di atti persecutori e di minacce, l’autorità giudiziaria ha lasciato trascorrere tre mesi prima che la denuncia della ricorrente fosse registrata, con il successivo rinvio a giudizio dell’aggressore “circa” quattro anni dopo il deposito della denuncia, mentre per la sentenza di primo grado si è dovuto attendere più di sei anni dal suddetto deposito. Sedici mesi dopo l’adozione della sentenza di primo grado, la Corte d’appello ha assolto l’imputato per i fatti commessi prima del 25 febbraio 2009, in quanto la legge che prevede il reato di atti persecutori non era ancora entrata in vigore, e ha dichiarato che i fatti delittuosi ascritti dopo tale data erano estinti per prescrizione.

In tale contesto processuale, la Corte Edu ha affermato di non essere “convinta” che, nel caso di specie, le autorità abbiano dimostrato una reale volontà di fare in modo che l’aggressore dovesse rendere conto del suo comportamento. Al contrario – si legge testualmente – la Corte ritiene che i giudici nazionali abbiano agito in violazione del loro obbligo di assicurare che l’imputato di minacce e atti persecutori fosse giudicato rapidamente, evitando che beneficiasse della prescrizione. La sentenza ha dunque concluso che il superamento del termine di prescrizione ha permesso all’imputato, nella sostanza, “di godere di un’impunità”.