Emanuela Sannino è la figlia di Palma Scamardella. Palma fu uccisa il 12 dicembre 1994. Aveva 35 anni, era diventata mamma da qualche anno. Fu uccisa a Pianura, nel quartiere della periferia occidentale di Napoli dove viveva, da un proiettile destinato a un camorrista della zona. Palma è una delle tante vittime innocenti della camorra che la storia criminale di Napoli si porta sulla coscienza. Ricordare a tutti la storia di Palma e quelle delle altre vittime innocenti assume valore se alla memoria si lega l’impegno, se si evita di cedere al populismo giustizialista e si concepisce la condanna non sia solo privazione ma anche responsabilizzazione, rieducazione. In questa ottica certe distanze si riducono, certi spazi si aprono. Come quelli del carcere, per esempio.

Non più soltanto mondo dentro, ma anche un ponte con il mondo fuori. Per immaginare nuove strade, nuovi percorsi. «Sono qui perché voglio dare un senso alla morte di mia madre, e mi auguro che voi possiate aiutarmi a credere in questo percorso costruendo ponti di memoria e luoghi di impegno», ha detto Emanuela parlando davanti a quarantasei detenuti del reparto Mediterraneo del carcere di Secondigliano. «Mi sono sempre chiesta che senso ha la mia testimonianza, mi piace pensare che la morte di mia madre possa servire per cambiare uno status. Nessuno sceglie dove nascere e l’ho vissuto personalmente. Dopo la morte di mia madre, mio padre non è riuscito a sostenermi, così sono stata affidata a mia zia materna che mi ha permesso di essere la persona che sono oggi». L’incontro di Emanuela con i reclusi della casa circondariale di Secondigliano rientra in un ciclo di incontri-testimonianze organizzato dal garante campano dei detenuti, Samuele Ciambriello, d’intesa con l’associazione Libera e con il coordinamento campano dei familiari delle vittime innocenti della camorra in vista della Giornata della memoria e dell’impegno che si terrà a Napoli il 21 marzo.

Vittime e autori di reati erano seduti gli uni di fronte agli altri. Dopo l’intervento di Emanuela, un detenuto a pochi esami dalla laurea in Giurisprudenza ha voluto condividere una riflessione. «È importante che noi accettiamo ciò che siamo affinché anche la comunità ci accetti come persone – ha affermato – Siamo i primi a discriminare soggetti che compiono determinati reati, dimenticando che gli stessi possono avere ad oggetto vittime se pur non dirette». «La parola legalità deve essere sostituita con il termine responsabilità, dove ognuno può ritrovare in sé quella forza ricostruttrice – ha spiegato Ciambriello – . Il vero aiuto è la capacità di progettare un carcere che dia valore ai rapporti tra autori, vittime e comunità intesi in termini di reciprocità e circolarità. Il dolore delle vittime deve essere un dolore collettivo presente nella vita di ognuno, affinché l’indifferenza non diventi un proiettile letale per chi vive il carcere e per la comunità». «Ringrazio questi coraggiosi testimoni di giustizia e di verità che entrano nelle carceri – ha concluso il garante – Storie pulsanti di vita e di impegno civile. La mafia e la camorra, come spesso ci ha ricordato Paolo Borsellino, vivono del controllo sul territorio, si fanno la guerra tra loro con morti e vittime innocenti e spesso danno risposte che lo Stato non dà. Ai promotori di morte dobbiamo, in tutti i modi, togliere respiro e manodopera».

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Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).