Domani ricorrono i quarant’anni dell’assassinio del professor Vittorio Bachelet, ucciso il 12 febbraio del 1980 nella Facoltà di Scienze politiche dell’Università La Sapienza a opera delle Brigate Rosse. Molto si potrebbe dire su Vittorio Bachelet, in quel momento oltre che docente universitario anche vice-presidente del Consiglio Superiore della Magistratura e in precedenza condirettore del periodico della Fuci Ricerca sotto la presidenza di Alfredo Carlo Moro e presidente dell’Azione Cattolica Italiana negli anni del Concilio Vaticano II. Una delle personalità chiave di quello che è stato definito il cattolicesimo democratico, che è stato particolarmente colpito dal terrorismo brigatista, come dimostrano anche i casi di Aldo Moro, di Piersanti Mattarella e Roberto Ruffilli. «Uccidono sempre gli stessi», fu il commento di Nilde Iotti a Maria Eletta Martini alla Camera dei Deputati il giorno dell’uccisione di Ruffilli. Rinvio per completezza al profilo tracciato dal professor Fulco Lanchester nel Dizionario Bibliografico Treccani, leggibile anche on line. Per questa occasione, per non ripetere cose scontate o che altri potrebbero dire molto meglio, ho pensato di rileggere il volume di Scritti Civili curato da Matteo Truffelli e pubblicato dall’Ave nel 2005 e devo dire che l’ho trovato particolarmente attuale.
Il messaggio più forte che se ne ricava è quello di un superamento del nazionalismo esclusivista con una piena accettazione delle opzioni atlantica ed europea. Un dato per niente scontato in quella fascia generazionale in cui tra i giovani cattolici socialmente più aperti, compresi vari costituenti, notevoli erano le riserve sul rapporto stretto con gli Stati Uniti d’America (che si sarebbe rivelato alla distanza una scelta capace di integrare tutte le forze politiche democratiche), in particolare tra i dossettiani e i gronchiani, che si sommava alla diversa opposizione dei settori della destra curiale. Com’è noto, pur allineandosi nel voto finale d’Aula, questi settori espressero chiaramente le loro riserve nel dibattito interno al gruppo democristiano. Ma non era più tempo per Bachelet, né in chiave progressista né conservatrice, di opporsi a questo duplice legame, anche a quello atlantico. Ciò avrebbe di fatto significato, al di là delle intenzioni, riproporre «un residuo di venerazione per questo mito della assoluta sovranità nazionale, in cui si assomma il mito dello Stato inteso come valore assoluto e il mito della nazione ritenuta necessariamente e in perpetuum come autosufficiente politicamente» (“La patria nella comunità internazionale”).
Era invece tempo per Bachelet di praticare il principio di sussidiarietà anche all’idea di Patria in una chiave, come diremmo oggi, multilivello: «La patria può essere il nostro paese, la nostra città, la nostra regione; può essere la nostra nazione radicata in un territorio e coincidente o non con lo Stato; può essere lo Stato stesso ma può essere una comunità di Stati; può essere (anche se man mano che i confini si dilatano può sembrare più difficile riconoscere negli uomini un vero e proprio sentimento di amore patrio) la comunità di tutti gli uomini» (Ivi). Soprattutto è l’Europa che va coltivata come «una comunità politica» poiché essa, appunto sulla base del principio di sussidiarietà, in questo caso verso l’alto, è «di dimensioni adeguate alla realizzazione del bene comune dei popoli europei nella situazione attuale del mondo» (“Gioventù europea”).
Questo messaggio di fondo non portava comunque Bachelet a dogmatizzare le concrete istituzioni che si creano in un processo necessariamente dinamico e di lunga prospettiva: «le forme che storicamente hanno tentato di organizzare questa comunità su piano giuridico si sono dimostrate finora, com’è naturale data la complessità del problema, del tutto imperfette. Ciò ha prodotto nella opinione pubblica una certa sfiducia e un certo scetticismo…ma questo scetticismo…non riesce spesso a vedere che più che di inutilità delle organizzazioni internazionali dovremmo parlare di incapacità degli Stati nazionali a superare anche politicamente, e sia pure con la dovuta gradualità, una misura che quasi in tutti i casi è stata superata sia nel campo economico sia in quello più strettamente industriale, in quello demografico come in quello militare; e perfino scientifico» (La patria.., cit).
Del resto era il medesimo pragmatismo con cui Bachelet si rapportava allo scarto, alla “notevole differenza” tra le due parti della nostra Costituzione: la prima «innovatrice e talora audace» e la seconda «ferma a un’impostazione di tipo pre-fascista, inadeguata quindi alle funzioni nuove dello Stato» (“Crisi dello Stato”). Del resto Bachelet aveva preso a modello nel suo slancio ideale il “senso concreto del possibile e del giusto” di Alcide De Gasperi che considerava il suo modello di riferimento. Quel senso concreto nel segno di una capacità riformista, di aggiornamento profondo della cultura e della politica che gli schemi ideologici chiusi del terrorismo individuarono allora, non a torto, come a esso radicalmente alternativo.
Quel senso che dobbiamo riscoprire qui ogni giorno, come nostro dovere comune.
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