La ricorrenza del 27 febbraio, nella ricostruzione degli eventi che portarono l’Europa a subire il dominio nazifascista, non viene di solito ricordata come una delle più importanti. Invece fu in quella giornata che, nel 1933, si verificò il vero golpe che cambiò la storia della Germania, dell’Europa e del mondo. In quella notte si verificò l’incendio doloso del Reichstag, la sede del Parlamento tedesco a Berlino (con aspetti mai chiariti fino in fondo, anche se si trovò un capro espiatorio e gli si strappò una confessione). L’attentato fu denunciato da Hitler come un atto di terrorismo “che doveva inaugurare una insurrezione comunista”.

Il governo varò un decreto esecutivo, firmato dal presidente Hindenburg (detto “il decreto dell’incendio del Reichstag”), che cancellava le libertà democratiche e civili e consentì arresti di massa in tutto il paese. Quel provvedimento – come scrive Carter Hett – diventò “il fondamento legale dei dodici anni di dittatura nazista”; in pratica, “la Costituzione del Terzo Reich”. Il principio del Führerprinzip nasceva da misure di carattere eccezionale, consentite dalla Costituzione di Weimar che non fu mai abrogata. Senza avventurarci in improbabili paragoni, la vicenda di quel decreto e le sue conseguenze (anche nell’ordinamento giuridico) costituiscono la prova (in tempi di ordini esecutivi a pioggia di Donald Trump) del fatto che – mutatis mutandis – non è impossibile la transizione, nei fatti, da un regime democratico a uno autoritario anche nel contesto di leggi fondamentali immutate.

Occorre, poi, prestare attenzione alle date: il 27 febbraio non era neppure trascorso un mese dal giorno in cui Hitler era stato nominato cancelliere. La prise du pouvoir fu tanto veloce che gli avversari di Adolf fecero la fine di quel cavaliere che continuava a combattere senza rendersi conto di essere già deceduto. Il presidente della Repubblica di Weimar, Paul von Hindenburg, di malavoglia si rassegnò a nominare – il 30 gennaio del 1933 – cancelliere dei Reich “il caporale boemo” (così lo definiva l’aristocratico Feld Maresciallo prussiano), Adolf Hitler, leader del partito nazista. Il capo dello Stato era stato convinto, benché recalcitrante, a compiere quella scelta da Franz von Papen, esponente dei nazionalisti e già cancelliere, con l’obiettivo di unificare tutte le destre nella maggioranza del Reichstag e nel governo del paese.

Hitler mostrò di non voler forzare la mano. Su 11 ministri, quelli nazisti (oltre lui) erano due: Wilhelm Frick agli Interni ed Hermann Goering come ministro senza portafoglio. Gli alleati coprivano gli altri incarichi. Von Papen era vicecancelliere; Franz Seldte (Stahlhelm) al Lavoro; Konstantin von Neurath (nazionalisti) agli Esteri; Alfred Hugenberg (editore e leader dei nazionalisti) ai dicasteri economici con portafoglio (ben cinque). Vi era anche un esponente del Zentrum. Il colpo da maestro di Hitler fu quello di far nominare Goering ministro degli Interni della Prussia, il land assolutamente più importante: il che metteva a disposizione del braccio destro del Fuhrer la polizia prussiana.

Pochi giorni dopo – scrive Benjamin Carter Hett nel saggio “Morte della democrazia” (Einaudi 2019) – “partì una raffica incessante di misure legali e poliziesche contro chiunque si potesse definire un oppositore del nazismo (comunisti, socialdemocratici, liberali, pacifisti, intellettuali e giornalisti, artisti, attivisti dei diritti umani) e contro la stampa”. Già il 4 febbraio Hindenburg fu convinto a firmare un decreto che conferiva alla polizia il potere di disperdere riunioni politiche, vietare associazioni, chiudere organi di stampa (toccò per primi ai giornali comunisti e socialdemocratici). Dieci giorni dopo, un distaccamento di polizia perquisì gli uffici del gruppo parlamentare comunista; poi venne imposta la chiusura della sede berlinese del partito. Il 17 febbraio Goering ordinò a tutte le forze dell’ordine prussiane di usare le armi contro i “nemici” dello Stato. Il 22 dello stesso mese un altro decreto consentì di arruolare come agenti ausiliari di polizia i membri delle “associazioni patriottiche”, ovvero le forze paramilitari dei partiti di destra.

Von Papen aveva confidato a un amico: “Lo abbiamo ingaggiato; nel giro di qualche mese lo avremo stretto in un angolo fino a farlo schiattare”. E si trovò ben presto a fare l’ambasciatore in Turchia. Ma le analisi dei socialdemocratici ricevettero smentite ancora più nette. Il 29 gennaio avevano organizzato una grande manifestazione al grido di “Berlino è rossa”, mentre il giornale della socialdemocrazia, il Wortwars, scriveva: “La Germania non è l’Italia, Berlino non è Roma, Hitler non è Mussolini. Sbaglia di grosso – continuava il giornale – chi ritiene che qualcuno possa imporre un regime dittatoriale sulla nazione tedesca”.