La prosa brillante di Corrado De Rosa, capace di avvolgere, inquietare e far sorridere allo stesso tempo, trova più che una conferma nel suo ultimo libro, A Salerno (Giulio Perrone, nella collana “Passaggi di dogana”, pp.277, euro 20). Qui quella prosa è esaltata, da quel fenomeno dalle radici vaste e complesse che possiamo chiamare amore per la città che ci ha dato i natali: appunto Salerno, per lo psichiatra-scrittore. Basti riportare l’incipit dell’ultimo capitolo del libro, intitolato “Wild Boys”: “Il giorno in cui ho capito che io e la modernità avremmo avuto una convivenza spigolosa me lo ricordo molto bene”.

Il modo di raccontare di De Rosa – tra autoironia, sguardo che scruta la serietà di ciò che appare facezia, intelligenza della memoria –risulta particolarmente riuscito nell’intessare piani diversi, dall’esperienza personale al ricordo, dalla ricostruzione storica alla restituzione urbanistica e paesaggistica, per raccontare la propria città: uno dei compiti più difficili per uno scrittore. Questa guida letteraria illuminante come poche sulla natura, l’essenza sfuggente di Salerno (e dei salernitani) va particolarmente consigliata ai napoletani e ai campani tutti: a partire dalla descrizione di come Salerno appare dall’autostrada in un modo che si differenzia profondamente a seconda del punto di arrivo. Di certo essa appare improvvisamente, lasciando sorpresi, straniti: “Se da quella piazzola sull’autostrada, la piazzola delle piazzole, non hai potuto fare a meno di fermarti, ti affacci in estate, allora il golfo ti sembrerà un bacino placido striato dalle scie dei diportisti all’assalto della Costiera Amalfitana: le piscine naturali di Erchie, la Marmorata di Ravello che ha ospitato Jacqueline Kennedy e Greta Garbo, oppure la baia di Conca dei Marini, terra di streghe per necessità”.

Tra i numerosi capitoli in cui il racconto del passaggio di De Rosa per le strade della sua città si articola (tutti segnati da un loro ritmo particolare), ci soffermiamo su quello, bellissimo, dedicato alle vie della Scuola medica salernitana: apprendiamo che “nelle Costituzioni di Melfi del 1231, Federico II vieterà di esercitare la medicina senza aver sostenuto un esame davanti ai maestri salernitani”. I quali praticano anche l’esoterismo e si avvalgono pure, se necessario, di “pratiche immorali” (la storia di Roberto e Sibilla la evochiamo soltanto qui, sperando corriate a leggerla). Proprio a Roberto di Normandia, figlio di Guglielmo il Conquistatore, era dedicato il “Regimen Sanitatis Salernitanus”, ispirato agli insegnamenti di Ippocrate e Galeno, il quale, ci ricorda De Rosa, “raccomanda di render medici sé stessi seguendo tre regole: mente lieta, dolci requie, dieta sobria”.

Seguiamo le tracce dell’autore per via Vadelperga, fino al duomo di San Matteo col suo (“laterale”) culto di Caterina Alessandrina, e da qui ai due decumani, l’uno intitolato alla dottoressa Trotula de Ruggiero che testimonia “dell’anima femmina e battagliera della Scuola medica”. Alla fine del capitolo De Rosa dice di sentirsi in un posto “Segreto, rarefatto”: ma è Salerno, in tutte queste pagine, ad attirarci grazie a lui in questo percorso di segretezza e rarefazione.