Luigi Proietti, Gigi, romano, primattore, capocomico, si allontana da noi, se ne va nel giorno del suo compleanno, ottantenne, cifra esatta, il giorno dei defunti, lo stesso della morte di Pier Paolo Pasolini. E si può certo dire che i due abbiano vissuto la Roma meravigliosa, incantevole, straordinaria, quella degli anni tra Sessanta e Settanta, colmi d’ogni fulgore scenico: Gigi da attore presto “mattatore“, l’altro da poeta delle ceneri, lo “straccetto rosso” e la camicia del carbonaro di Castel Sant’Angelo, di un mondo ormai assente perfino alla memoria. C’è perfino da immaginarli insieme nei giorni degli Scritti corsari, con quel perentorio civile “Io so i nomi dei responsabili delle stragi…” e ancora nuovamente vicini nei giorni sconocchiati di Febbre da Cavallo, Gigi come Mandrake, momenti speculari della medesima Italia, anzi, di un’unica Roma ancora segnata dal suono dei gettoni telefonici nel fondo delle tasche e gli ampi svasi dei calzoni.

Il cuore malandato di Proietti infine ha ceduto. Qualche anno fa, incontrandolo per caso, ne avevo colto i timori rispetto alla salute, l’ho sentito fragile, preoccupato per se stesso, accompagnato tuttavia dalla generosità di sempre, la stessa che dai giorni delle cantine e dei pianobar l’avevano infine fatto diventare Gigi, Gigi Proietti, un beniamino del pubblico, anche e soprattutto popolare, gente che non fa caso al birignao, ma si bea delle prodezze sceniche più immediate. Eccolo protagonista accanto a Renato Rascel, era il 1970, di un inenarrabile musical, Alleluja brava gente, un successo, l’inizio della sua, se così possiamo dire, pubblica gloria, fama, successo, empatia, e ancora, da lì a poco, ecco un Proietti militante di sinistra, compagno di strada, che pronuncia recitar-cantando una sequenza di “No, no, quel sì non lo dirò“ nello spot realizzato in occasione del referendum per il divorzio, ed era il 1974. E ancora Gigi, i capelli non ancora bianchi, che fa dono al mondo della nostra indimenticabile comicità, meglio, delle stagioni dei nostri amori scenici, alcune gemme assolute: irresistibile la storia del “cavaliere nero” cui «… nun je devi caca’ er cazzo», e un istante dopo il dialogo dell’avvocato e del contadino: «Scusi, avvoca’, ma perché quando s’inculamo siamo in due e quando me se n’culano so’ sempre io da solo?». Gemme, perle, diamanti comici di un giacimento assoluto di battute in grado di finire addirittura, certi anni, nelle segreterie telefoniche, oggi nelle suonerie dei cellulari.

Gigi e il suo “A me gli occhi, please”, scritto con Roberto Lerici, i teatri-tenda, il trionfo al Teatro Olimpico, poi il Brancaccio di via Merulana, direttore artistico, e il Globe; i dubbi iniziali che tutti i posti a sedere non potessero essere occupati dal pubblico riottoso, difficile, così negli anni delle cosiddette giunte rosse, è invece un trionfo. La scelta di abbandonare il tempo e l’umido catacombale delle “cantine”, ossia il teatro politico o d’avanguardia quasi con prenotazione obbligatoria, per concedersi alla pienezza oceanica del grande pubblico, e Roma presto a sentirlo come il nuovo figlio di scena prediletto, accanto a Carlo Verdone, simmetrici, Gigi l’erede dell’inarrivabile Ettore Petrolini. Una voce, la voce ora da tenore ora baritonale, allenata, adibita, pronta a ogni genere di iperbole recitativa, e perfino grammelot, così da restituire la funambolica grazia dei “salamini” o di Gastone, o di Nerone, sempre per restare nella memoria iconica petroliniana.

E chissà se Gigi, sempre petrolinianamente, “se n’e’ andato guarito”. E ancora le risate irrefrenabili davanti alla parodia del cantante “esistenzialista”, rigorosamente in maglione nero a collo alto e sigaretta tra le dita: «Nun me rompe er ca’…», questa e altre perle sublimi popolari, pronte a farne un beniamino del pubblico, così da suggerirgli perfino di trasformare se stesso in sublime mangiafuoco, allestendo una scuola di teatro per futuri talenti comici, laboratorio che ha regalato al mondo delle scene altri piccoli-grandi prodigi viventi, Enrico Brignano, Rodolfo Laganà, Paola Tiziana Cruciani, Francesca Reggiani, per dirne solo alcuni, per definizione la scuola di teatro di Gigi Proietti, un vivaio, un trampolino, da immaginare sospeso sul cielo di Roma e dei suoi botteghini di piazza a venire.

Che Gigi sapesse anche cantare, e perfino misurarsi con il doppiaggio, è storia certa, e ancora che avesse partecipato ai giorni paleocristiani dei pianobar, lo si è già detto, che fosse profondamente generoso, lo sappiamo pure, era insomma una pasta d’attore che, oltre a dispensare autografi o selfie, mostrava la grazia generosa di riprodurre i propri momenti comici magici in modo estemporaneo: il “cavallo di battaglia” del cavaliere nero e ogni altra sua ingegneria scenica, parodistica, indulgendo infine al gusto narrativo da sceneggiato per famiglie ottimo per la prima serata televisiva di Raiuno, se così non fosse stato, mai l’avremmo visto in divisa ordinaria da carabiniere, anzi, maresciallo Rocca, dell’Arma, certamente non una pietra miliare in termini di sontuosità da Palmarès, e tuttavia entrato comunque nella quadreria televisiva accanto al Maigret di Gino Cervi e all’impermeabile del tenente Sheridan-Ubaldo Lay.

La generosità dicevamo. Qualche anno fa, in casa di amici comuni assai cari a Gigi, Lorenza Foschini e Marco Molendini, avevamo trascorso insieme una lunga serata inenarrabile, a fargli da spalla c’erano anche Pippo Baudo e Renzo Arbore, e sua “moglie”, mai sposata, Sagitta, che amorevolmente sembrava avere contezza di tutto il suo repertorio, «… Questa è inutile che gliela richiedete perché non se la ricorda», ciononostante proprio quella sera Gigi, senza mai “ciancicare” neppure una sillaba del repertorio originale, aveva restituito a tutti noi perfino le esatte battute di Mandrake falso vigile in Febbre da cavallo di Steno, quel « … whisky maschio senza fischio, senza raschio, col caschio? Col fischio?». Raccontò perfino che certe prodezze comiche erano frutto di pura improvvisazione: che disdetta che non abbia voluto essere filmato da me, il cellulare rimase infatti nella tasca.

Resta la sua comicità, la grana della sua voce recitante, ora plebea, “coatta”, “burina”, da figlio del Tufello, ora assoluta da Ecclesiaste, da “Pianto della scavatrice” di Pasolini o da Gioachino Belli o perché no Trilussa, impossibile da immaginare fissata, come un insetto trafitto da uno spillo del copione, dentro una pagina immobile, sincera prova del suo immenso talento di attore, sincera evidenza della sua immensa sensibilità prensile d’attore. E dire che in famiglia l’avrebbero voluto inizialmente avvocato, dopo il liceo Augusto, a San Giovanni, anzi, all’Alberone. Che peccato, che disdetta saperti adesso via, Gigi. Parafrasando Petrolini, «che vergogna morire a cinquant’anni». Anche a ottanta, forse, come Shakespeare il giorno del proprio compleanno, quando le trombe del cielo dell’ingresso in scena dovrebbero suonare tutte e soltanto per te.

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Fulvio Abbate è nato nel 1956 e vive a Roma. Scrittore, tra i suoi romanzi “Zero maggio a Palermo” (1990), “Oggi è un secolo” (1992), “Dopo l’estate” (1995), “Teledurruti” (2002), “Quando è la rivoluzione” (2008), “Intanto anche dicembre è passato” (2013), "La peste nuova" (2020). E ancora, tra l'altro, ha pubblicato, “Il ministro anarchico” (2004), “Sul conformismo di sinistra” (2005), “Roma vista controvento” (2015), “LOve. Discorso generale sull'amore” (2018), "Quando c'era Pasolini" (2022). Nel 2013 ha ricevuto il Premio della satira politica di Forte dei Marmi. Teledurruti è il suo canale su YouTube. Il suo profilo Twitter @fulvioabbate