La rissa di strada, l’abuso d’alcol e stupefacenti, l’incidente stradale: sono questi i pericoli temuti dal genitore medio, e dalla società che mostra di tenere ai propri giovani. E sono pericoli dovuti all’imprudenza, all’avventatezza, all’intemperanza non raramente tipiche appunto di quando si è ragazzi. Ma c’è un pericolo cui essi sono esposti e del quale non si parla mai, un pericolo anche più grave di quelli, e che più di quelli può infierire sulla vita del giovane che vi incappa. È il carcere.

È il finire nelle grinfie di questo mostro, lo Stato, che in nome del popolo italiano istituisce, mantiene e organizza l’inutile e criminale segregazione dei ragazzi, a volte poco più che bambini, in luoghi di degrado fisico e morale, luoghi di istigazione alla criminalità che si vorrebbe prevenire e reprimere e che invece trionfa nell’incattivimento ulteriore del recluso e nella prospettiva moltiplicata della sua recidiva. È strano che non ci si pensi, ma che tra le tragedie di cui può essere vittima un giovane spicchi quella preparata dal potere pubblico, dallo Stato che tiene in funzione gli ambiti di abiezione in cui essa si consuma in nome della legge, dovrebbe costituire materia di grave cruccio per chi dice di avere a cuore la sorte dei giovani.

L’adolescente che per un delitto non sempre di grave portata, anzi spesso di nessun allarme sociale, viene strappato alla famiglia e imprigionato in un ambiente violento, di sopraffazione, ed è perciò incamminato più rigorosamente su una via di emarginazione che aveva forse solo accennato a intraprendere, non è meno figlio di tutti noi rispetto a quello incolpevolmente coinvolto nella bravata, o spinto allo sballo dalla solitudine o dalla compagnia cosiddetta sbagliata. Con la differenza che questi incidenti non chiamano in causa in modo tanto diretto la responsabilità dello Stato, che invece in modo deliberato e persino con la pretesa di comportarsi giustamente eleva contro la vita, contro la salute, contro il futuro di tanti giovani la propria promessa di ingiustizia, la propria gratuita crudeltà, la propria ottusa perseveranza nel maltrattare giovani esistenze bisognose di cure, non di privazioni ulteriori.

Bisognose di considerazione, non di umiliazione. Bisognose di credito, di speranza, di possibilità di vita: non del grugno inquirente dello Stato che rinfaccia la cattiva condotta che esso stesso induce e compila le poste di debito che peseranno per sempre su quella vita agli esordi.
E’ curioso che la preoccupazione istituzionale sia richiamata dall’evasione di alcuni ragazzi, quella dell’altro giorno dal Beccaria di Milano: e non dal fatto che vi fossero rinchiusi. Mi sembra esemplare: il problema era la fuga e come evitare che fuggissero. Perché è questo che incrina l’affidabilità e la rispettabilità dello Stato: il fatto che esso non riesca a impedire a un adolescente di scappare, non il fatto di averlo imprigionato. Per tanti giovani, e non solo tra i più disagiati, prima e più della droga, prima e più della violenza di strada, prima e più degli incidenti, il pericolo è lo Stato con le sue prigioni.