Alessandro Barbano, vicedirettore del Corriere dello Sport, autore di “La gogna. Hotel Champagne, la notte della giustizia italiana”.

Perché la notte della giustizia italiana?
«Volevo restituire una verità storica a un falso narrativo. È una vicenda il cui racconto ufficiale è forse l’esatto opposto di ciò che è accaduto, è il più grosso scandalo della magistratura nella storia repubblicana. Secondo questo racconto una massoneria di magistrati e politici stava per mettere le mani sulla procura di Roma facendo nominare un magistrato addomesticabile. Questa massoneria era capeggiata da Palamara, Lotti e Ferri, che vengono smascherati e puniti ripristinando l’onore e il decoro della magistratura. Questo il racconto ufficiale dello scandalo, enorme perché nel cuore del Csm, il sinedrio della giustizia italiana. Ma non sta in piedi».

Questo libro mette a dura prova la credibilità di quanto è stato costruito, a cominciare dall’utilizzo delle intercettazioni.
«Il vero scandalo è proprio l’indagine, il racconto non regge intanto perché il magistrato beneficiario della congiura oggi è procuratore di Milano, se fosse stato colluso non potrebbe farlo, è la parte lesa in quella vicenda. C’è invece una guerra di potere tra cordate diverse della magistratura attraverso l’uso e l’abuso di intercettazioni diffuse, caso unico nella storia repubblicana, in corso d’opera, quindi la funzione non è processuale ma puramente mediatica. Attraverso queste intercettazioni si sorveglia prima e si ribalta poi la maggioranza di un organo di rilevanza costituzionale. In quell’hotel non è successo nulla, quella riunione era una delle tante raccogliticce che alla vigilia delle nomine si fanno in Italia tra magistrati e politici, frutto della composizione mista del Csm, che la stessa Costituzione in parte avalla, e di una degenerazione figlia del correntismo dentro la magistratura».

È una di quelle questioni che ci sono sempre state ma non c’erano i trojan.
«Il principale motivo per cui Palamara viene radiato e vengono puniti i cinque consiglieri dell’hotel Champagne è che quella sera c’era Lotti, un deputato imputato dalla stessa procura della quale si discuteva. Ma Lotti è stato indagato da quella procura nel dicembre 2016 e qui noi parliamo di maggio 2019. Dal 2016 al 2019 Lotti ha incontrato, in occasioni conviviali e professionali, quasi tutti i vertici della magistratura italiana e i più alti vertici istituzionali. E di cosa si discuteva in quelle riunioni visto che Lotti aveva una sorta di delega surrettizia sulla giustizia? È però il trojan che improvvisamente trasforma i contatti grigi della democrazia, che come tutti i poteri è opaca e frutto di compromessi, in qualcosa di criminogeno».

Per poter usare il trojan con Palamara e gli altri è stato ipotizzato un reato che nella fase finale di tutta la vicenda giudiziaria viene derubricato. E Palamara ha patteggiato per un reato per cui non si sarebbe potuto utilizzare il trojan.
«La “spazzacorrotti” estende l’utilizzo del trojan alle ipotesi di corruzione, le due ipotesi che vengono formulate contro Palamara sono prima facie illogiche. La prima riguarda la denuncia di un giudice corrotto e pentito, frutto di illazioni prive di fondamento, ma non vengono fatti i dovuti accertamenti. Viene subito intercettato Palamara ma le intercettazioni dovrebbero essere legate a elementi di reato gravi e indispensabili. Qui non c’è altro che una millanteria. Che poi cadrà e Palamara non sarà mai condannato per questo. L’altra ipotesi è di aver ricevuto viaggi pagati da un amico imprenditore in alberghi con la compagna con cui aveva una relazione segreta e con la moglie. Anche qui manca la controprestazione, la corruzione si fa in due. Questo imprenditore non viene né intercettato né indagato, c’è il corrotto e non il corruttore. Fino al 27 maggio, momento in cui le intercettazioni vengono divulgate».

Cos’è il trojan?
«È un virus informatico inoculato nello smartphone dell’indagato e che si trasforma in un captatore ambientale. Può registrare conversazioni, filmare con le telecamere, prendere dati dalla memoria, è un faro acceso 24 ore sulla vita di un indagato. È lo strumento più pervasivo che un’investigazione possa prevedere, un’arma di distruzione di massa perché non ci dà la verità di ciò che è accaduto ma, come qui, ci racconta le emozioni, i retropensieri, le tentazioni che stanno sotto l’ufficialità della vita pubblica. Ma dal punto di vista probatorio quelle intercettazioni non provano nulla se non a raccontare le opache trattative per la nomina dei procuratori».

Questi trojan vengono attivati da una centrale esterna, non sono sempre accesi. Palamara, col trojan inserito, va a cena con l’allora procuratore della Repubblica di Roma Pignatone e lì non ha funzionato.
«In quel caso si spegne, ma ci sono anche altri buchi che non sono tutt’ora stati spiegati. Ci sono tre indagini aperte a Napoli e Firenze per capire cosa sia successo, nessuno lo sa. Di certo, il giorno dopo la serata dell’hotel Champagne, Palamara e Pignatone, che hanno rotto il loro sodalizio ma che si trovano a cena insieme, parlano e non vengono intercettati. Questo buco secondo i periti della difesa dei 5 consiglieri dell’hotel Champagne, è frutto di una manipolazione informatica per cui ci sono da tre anni degli indagati. Come pure il server di queste intercettazioni non si trova né a Perugia né a Roma, perché la ditta privata che segue le intercettazioni all’insaputa di tutti lo ha ubicato nella procura di Napoli, un altro degli assurdi della vicenda».

All’hotel Champagne vengono indirettamente intercettati due parlamentari che, per la Costituzione, non possono esserlo se non previa autorizzazione della Camera. Si dice che sia stato un caso ma tu smonti anche questo.
«La Finanza che indaga è perfettamente consapevole che Palamara incontra Ferri, perché su di lui compie una quantità di accertamenti tali da configurare una sorta di indagato di fatto, cioè non è iscritto ma nei suoi confronti si indaga. E quando il Csm vuole processare disciplinarmente Ferri utilizzando le intercettazioni, la Camera nega l’autorizzazione e il Csm solleva un conflitto di attribuzione di fronte alla Consulta che stabilisce qualcosa di incredibile».

In una tua ultima presentazione c’era il Vicepresidente della Consulta di allora, Zanon, che sul punto ha rivelato che quella sentenza fu pronunciata “rovesciando la Costituzione”. Mi pare un fatto clamoroso.
«La sentenza apparve subito abnorme perché ha stabilito che l’intercettazione occasionale di un deputato non indagato è lecita se non è esplicitamente voluta ancorché prevedibile. Così è pervenuta a un risultato aberrante, perché basterà evitare di iscrivere il parlamentare nel registro degli indagati per poterlo intercettare, sia pure indirettamente. Inoltre, a stabilire se l’intercettazione sia voluta o occasionale deve essere, secondo la Corte Costituzionale, lo stesso pm che ha chiesto l’intercettazione al gip. Quindi la Camera potrà contestare al pm solo a posteriori di aver fatto intercettazioni volute su un parlamentare spacciandole per casuali come per Ferri, che non è stato mai indagato. I finanzieri che intercettavano Palamara non hanno spento il trojan durante gli incontri tra i due, pur essendo a conoscenza dell’immunità che avrebbe dovuto proteggerlo. Zanon ha detto che la Consulta, massimo organo di garanzia sui comportamenti tenuti dalle istituzioni, ha deciso su una delle questioni più rilevanti della Carta e della democrazia stessa, cioè l’ampiezza dell’immunità parlamentare che definisce la divisione e il rapporto tra poteri, tenendo conto di due preoccupazioni. La prima era salvare i giudicati disciplinari di Palamara e soci, e la seconda non dare torto alla Corte di Cassazione che li aveva confermati, subordinando una decisione così alta a ragioni di economia processuale e di difesa corporativa. Facendo sua una logica di risultato che però contraddice la terzietà e l’indipendenza della Corte. Il cedimento alla logica di risultato è esattamente lo slittamento che si è prodotto negli ultimi trent’anni nella magistratura italiana che ha fatto proprio, su delega della politica, il compito di combattere la criminalità, quello di bonificare la vita pubblica e poi quello di assumere la tutela morale della politica, assumendo quindi il risultato dell’azione penale come il senso del suo magistero. Ma la giustizia altro magistero non avrebbe se non quello di accertare la verità in uno spirito di terzietà. Questa logica trasmigra dal giudiziario al potere di garanzia e crea un inquinamento costituzionale e civile della democrazia».