Sul tema ha scritto uno dei saggi più documentati e interessanti in circolazione: Il genocidio degli armeni (Il Mulino, nuova ed. 2015). E poi più di recente Il genocidio (Il Mulino 2021). La parola a Marcello Flores. Il professor Flores ha insegnato Storia comparata e Storia dei diritti umani nell’Università di Siena, dove ha diretto anche il Master europeo in Human Rights and Genocide Studies.
Professor Flores si può parlare di quello armeno come di un “genocidio” dimenticato?
Indubbiamente è stato dimenticato molto a lungo, direi però che ormai da parecchio tempo è un genocidio tutt’altro che dimenticato, visto che vi sono tantissimi paesi, governi, stati, assemblee parlamentari che lo hanno riconosciuto. È dimenticato, volutamente, dalla Turchia. Anche qui le cose non sono statiche, immobili nel tempo. Va ricordato infatti che nel corso degli anni la Turchia ha modificato il proprio atteggiamento. Quando io ho cominciato ad occuparmene, negli anni ’80-’90 del secolo scorso, la Turchia non parlava neanche di massacri degli armeni, diceva che c’erano state qualche decina di migliaia di armeni morti durante la guerra e poco più. Successivamente ha riconosciuto alcuni massacri anche se con numeri molto inferiori. Adesso la questione che pone la Turchia, anche se ridimensiona un po’ le vittime, è: sono stati massacri ma non è stato un genocidio. In questo modo punta soltanto sulla qualifica di quei massacri. Come sappiamo, “genocidio” identifica una volontà di sterminio che è quello che i turchi vogliono negare. Nel complesso, direi che soprattutto attorno al centesimo anniversario, è stato un fatto riconosciuto da tutti quanti. Non lo definirei più “dimenticato”, però bisogna anche ricordare che si tratta un genocidio avvenuto mezzo secolo prima che s’inventasse la parola “genocidio”, quindi la difficoltà di parlare di genocidio rispetto a quelli del passato ha sempre creato un po’ di ambiguità e di confusione.
Sempre per restare nella storia. Il genocidio degli armeni fu preso a modello da Adolf Hitler.
Non parlerei di “modello”. Sicuramente Hitler era consapevole di quello che era successo, ma bisogna dire che il “modello” Hitler lo costruisce in modo autonomo e indipendente. All’inizio della guerra Hitler rivolgendosi ai suoi ufficiali dice che nessuno si ricorda più del massacro degli armeni. In questo modo Hitler intende affermare che noi adesso possiamo fare quel che vogliamo, come violenza, uccisioni, stermini, perché tanto siccome vinceremo poi nessuno se ne ricorderà. Non è che la folle idea dell’Olocausto gli fosse venuta da lì. È già subito dopo la prima Guerra mondiale che Hitler individua la questione ebraica come fondamentale nel suo legarla alla sconfitta nella Grande guerra, alla pugnalata alle spalle, facendone il suo centro come emergerà in modo estremamente chiaro nel Mein Kampf.
Come definirebbe ad un suo giovane studente il popolo armeno?
È sempre difficile definire i popoli. Perché in ogni popolo c’è di tutto e rischia di essere una forzatura schematica, dottrinaria, quella di ricercare una definizione univoca di carattere identitario. La caratteristica degli armeni è quella di aver vissuto la maggior parte della propria storia, almeno quella contemporanea, all’estero, come diaspora, al di fuori del proprio paese. Questo ha significato molto, perché ha fatto sì che gli armeni siano una popolazione nota in tutto il mondo. In tutto il mondo ci sono mercanti, artisti, banchieri ma anche gente “normale” che fa il proprio mestiere e che ha ritrovato un legame con la madre patria soprattutto quando l’Armenia ha acquisito l’indipendenza dopo il crollo dell’Unione Sovietica.
Venendo all’oggi. Lei come legge questo ritorno del conflitto azero-armeno. Sta nella sua ciclicità o c’è dell’altro?
È abbastanza difficile da dire. Bisogna riconoscere che quello è un conflitto che dura da 27 anni. E che nel 2020 ha avuto una ripresa e una novità…
Quale?
La sconfitta dell’Armenia e la “resa” degli armeni di una parte del Nagorno-Karabakh, la regione contesa. Dietro a tutto questo ci sono grandi potenze regionali – la Russia e la Turchia – che rendono complicata la vicenda ma che sono anche quelle, nella vicenda di questi giorni, che sembra abbiano permesso un immediato cessate-il-fuoco che speriamo duri. Ma è anche una questione di diritto internazionale e di diritto all’autodeterminazione che è estremamente complessa. Ed è stata resa tale proprio da questi venti anni in cui si era raggiunto una sorta di status quo che però non aveva delle solide basi condivise dai due paesi coinvolti – l’Azerbaigian e l’Armenia – sul diritto internazionale e sul modo in cui esso veniva interpretato dalle parti belligeranti. Una situazione estremamente complicata che solo con la capacità di colloquio fra le due parti potrebbe essere risolta, ma questo è molto difficile anche perché l’Azerbaigian è l’unico grande paese che ha sempre appoggiato la Turchia nel negazionismo del genocidio armeno. E questo finisce anche per favorire quelle posizioni nazionaliste estreme nell’Armenia che vedono il conflitto con gli azeri come una possibile ripetizione del genocidio, cosa che non sta in piedi da un punto di vista di qualsiasi tipo di analisi.
Lei ha diretto anche il Master europeo in Human Rights and Genocide Studies, quindi è la persona più indicata a rispondere a questa domanda: anche sui genocidi noi Occidente, noi Europa, abbiamo fatto una sorta di gerarchia? Esistono genocidi di serie A e genocidi di serie B, e tra questi ultimi c’è quello armeno?
Non dovrebbe essere assolutamente così. Come del resto non dovrebbe esserci una gerarchia dei grandi crimini. Nel senso che genocidi, crimini contro l’umanità o crimini di guerra, sono tutti crimini non solo assolutamente da condannare ma che dovrebbero prevedere un intervento qualsivoglia da parte della comunità internazionale per fermarli e, nel caso non ci si riesca, per provare a punire coloro che sono stati i responsabili. Io credo che la questione legata alla parola “genocidio” sia stata molto utilizzata dai mezzi di comunicazione, dall’opinione pubblica, come tentativo di dare più forza ad alcuni avvenimenti rispetto ad altri. Perché è una parola più forte, è una parola che in qualche modo richiama quello che è stato definito “il crimine dei crimini”. Uno dice c’è un genocidio e questo sembra essere più forte del dire o scrivere che c’è un crimine contro l’umanità, anche se le violenze sono spesso simili, dello stesso tipo. Nel genocidio c’è l’intenzione di distruggere un gruppo – etnico, nazionale o religioso – e di cancellarlo dalla faccia della terra, cancellarlo dall’umanità. Questo è l’elemento che differenzia un genocidio, come è stato quello perpetrato dai nazisti contro gli ebrei, dai crimini di guerra e contro l’umanità che continuano a segnare anche il nostro tempo. E anche da parte di vittime delle violenze c’è la volontà di dire il nostro è un genocidio perché si pensa o si spera che così ci possa essere una maggiore attenzione alle proprie sofferenze. L’intenzione è l’elemento decisivo, che determina a quale categoria un crimine appartenga. Per nessun crimine c’è una giustificazione, solo la comprensione di quale intenzione lo ha originato. Così se la parola genocidio viene usata da giudici e giuristi, l’intenzione dell’imputato è determinante perché potrebbe aver compiuto dei massacri, crimini di guerra e crimini contro l’umanità ma non quello di genocidio. Perché non ha compiuto quelle efferate azioni con l’intenzione di chi vuole eliminare dei civili unicamente perché appartengono a un gruppo particolare (religioso, politico…). E questo non è facile da spiegare e raccontare.
In precedenza ha fatto riferimento al ruolo della Turchia. Non crede che oggi Erdogan abbia trovato un modus operandi nei confronti dell’Europa che si può definire come un ricatto permanente?
Da una parte c’è sicuramente l’aspetto da lei indicato. Ma dall’altra c’è una modalità di compromesso con l’Europa su una base che non è più quella che per molto tempo c’è stata, vale a dire la possibilità di ingresso della Turchia nell’Unione Europea, per cui la Turchia doveva accettare le regole imposte dall’Europa. In questo caso è una sorta di compromesso geopolitico in cui la forza per alcune questioni che ha acquisito la Turchia, fa dire ad Ankara: le critiche al nostro regime tenetevele per voi o comunque fatele più “sottovoce” di come invece sarebbe opportuno e necessario se si guarda ai valori europei, che sono molto diversi da quelli del governo turco. Mi lasci aggiungere in conclusione che malgrado continui da parte del governo e dello stato turco una politica di minimizzazione di quell’evento, derubricato a massacro di guerra analogo a quelli che coinvolsero i cittadini turchi, nella stessa società turca sono sempre più frequenti le voci, non gradite al regime, di chi vuole capire il passato, di chi non accetta le censure del regime, di chi pretende che la storia non sia oggetto di verità di stato ma il libero terreno di ricerca, di studio, di discussione.
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