L’appello delle circa ottanta giuriste che invitano a una riflessione sul disegno di legge in materia di femminicidio merita certamente attenzione. È un tema troppo delicato perché si possa trascurare qualsiasi contributo utile a costruire una risposta non solo normativa, ma anche culturale e condivisa.
Tuttavia, c’è qualcosa che non torna. Qualcosa che, a mio avviso, mina proprio alla radice la coerenza dell’appello. Trovo singolare – e non in senso positivo – che un gruppo di penalisti rediga un documento di questo tipo e che tra i firmatari compaiano esclusivamente nomi femminili. La domanda allora è inevitabile: che cosa è successo? I numerosi colleghi uomini, penalisti autorevoli e sensibili, non ne sono venuti a conoscenza o hanno scelto di non aderire? Oppure, cosa ancor più inquietante, sono stati semplicemente esclusi?

La riflessione

Ecco, se nel testo si richiama l’esigenza di una “riflessione […] ampia e articolata, che tenga conto della complessità del fenomeno, le cui cause sono profondamente radicate nella cultura e […] nella struttura della nostra società”, come si spiega che si scelga di dare voce a questa complessità attraverso un gesto, la firma, riservato a un solo genere? Questo è il nodo. Perché un simile atto, pensato per promuovere consapevolezza e impegno, finisce col riprodurre una separazione che è parte stessa del problema. L’approccio esclusivo, solo femminile, rischia di rafforzare quella dinamica che isola la voce delle donne, anziché amplificarla. Lo vediamo spesso in contesti sociali, dove il richiamo a un’identità di genere diventa una risorsa difensiva, ma anche un recinto.

Il cortocircuito

Per questo stupisce che a incorrere in questo corto circuito siano proprio accademiche. Involontariamente, finiscono per assegnare al femminicidio una valenza intellettuale di genere esclusivo, quasi che fosse un problema da donne per le donne. Ma se è chiaro che il femminicidio colpisce essenzialmente il mondo femminile, è altrettanto evidente che la sua soluzione non può essere né pensata né praticata da una sola metà della società.

Nessun intervento potrà funzionare

È su questo punto che si rivela l’incrinatura. Non esistono temi, tanto meno nella sfera penale, che possano essere ritenuti “di competenza” maschile o femminile. Nessuna materia è proprietà esclusiva di un genere. Ecco perché questa scelta, anche se non guidata da pregiudizi, suscita una legittima perplessità: sembra contraddire lo spirito inclusivo e complesso che lo stesso appello dice di voler rappresentare. Per il resto, i contenuti dell’appello appaiono animati da principi condivisibili. È legittimo interrogarsi sull’efficacia di un reato specifico o di un’aggravante. Forse servono anche i simboli, ma non bastano se restano vuoti. Il punto vero è che nessun intervento, per quanto tecnicamente raffinato, potrà funzionare se non coinvolge l’intera società. E proprio qui si innesta la riflessione più urgente: il dibattito deve includere tutti, soprattutto gli uomini. Non solo quelli che fanno parte del problema – e sono tanti – ma ancor di più quelli che possono essere parte della soluzione: padri, fratelli, amici, colleghi, docenti. Serve la voce di tutti per cambiare davvero. Ed è questa la contraddizione più forte dell’appello: voler cambiare insieme, parlando da soli.