Enrico Letta ha vinto il seggio alla Camera dei deputati ottenendo il voto favorevole di poco più del 17% degli aventi diritto al voto. Difatti, alle elezioni suppletive del collegio di Siena ha partecipato appena il 35,65 degli elettori. A Roma, i votanti al ballottaggio sono stati solo il 40,68% degli aventi diritto. Gualtieri, quindi, è stato eletto da meno del 25% degli aventi diritto al voto. Termini numerici analoghi segnano le elezioni della più gran parte degli altri primi cittadini. Il dato dell’astensione è ancora più impressionante, poi, se lo si confronta con il clima infuocato in cui si è svolto, prima delle elezioni, il dibattito sul fascismo e l’antifascismo e, prima ancora, quello sulla legge Zan. Temi identitari, che avrebbero dovuto, nelle intenzioni di chi ha alzato i toni, mobilitare il popolo degli elettori. Così non è stato.

Inevitabile, perciò, chiedersi cosa stia succedendo e porsi la domanda, come ha fatto Paolo Mieli sul Corriere della sera (21 ottobre), “e se decidessimo di non andare più a votare?”. Fausto Bertinotti, su questo giornale (23 ottobre), ha scritto che ci si trova di fronte a un fatto politico clamoroso, costituito dal dato che la maggioranza degli aventi diritto al voto, per la precisione il 56%, non ha votato. È un fatto politico che segnala un “incendio, in questo caso l’incendio è della democrazia rappresentativa”. Ridurre la questione alla palese inadeguatezza di molti candidati del centrodestra è del tutto insoddisfacente. Si tratta di un aspetto che spiega il loro flop elettorale, ma che non offre alcuna utile chiave di lettura per comprendere il dato complessivo di una astensione così massiccia. Se Enrico Letta, segretario acclamato di un partito importante e radicato come è il Partito Democratico, è eletto con appena il 17% degli aventi diritto al voto, appare evidente che il tema dell’astensione riguarda tutti, vinti e vincitori. È l’intero sistema democratico, come sottolinea Fausto Bertinotti, a essere in crisi.

Una causa decisiva è certamente stata la progressiva e inarrestabile riduzione della sfera di azione della politica. Viene, in particolare, in evidenza il capitolo, amplissimo, dei diritti sociali. Essi sono gradualmente spariti dall’agenda politica, man mano che si è andata affermando la globalizzazione. Questo è avvenuto per due ragioni diverse, ma convergenti. Da un lato, la globalizzazione è stata vista da molti, e tra questi da larga parte della sinistra, come la nuova età dell’oro, che avrebbe portato ricchezza e benessere a tutti. In questo senso ogni riferimento ai confini nazionali è stato visto come un ostacolo alla globalizzazione e, perciò sacrilego. La globalizzazione è stata come un fiume in piena, al quale è stato consentito di travolgere qualsiasi resistenza. Quando poi ci si è resi conto che la globalizzazione non era un ballo di gala, ma un fenomeno complesso e spesso con conseguenze disumane, quali quelle determinate dalle delocalizzazioni e dalla competizione tra poveri, la politica si è scoperta troppo debole per avere un reale potere di governo del fenomeno.

Non avere un potere di governo sull’economia significa non avere un potere di governo dei diritti sociali. Il grado di soddisfacimento di questi ultimi, difatti, è l’indicatore più qualificato di quale sia l’indirizzo reale di un determinato governo. In Italia, poi, la situazione è ancora di più aggravata dall’altissimo debito pubblico, che non consente interventi realmente significativi. A ben vedere, gli ultimi tentativi della politica di incidere sui diritti sociali sono stati i provvedimenti sul reddito di cittadinanza e sul regime pensionistico che va sotto il nome di quota 100. Al di là di ogni considerazione sulla coerenza e sulla adeguatezza di tali misure, le riforme che si annunciano su questi temi appaiono dettate, più che da una valutazione di carattere politico-sociale, dall’esigenza di adeguarsi alle regole economiche imposte dalla globalizzazione.

Nel momento in cui il dibattito politico sui diritti sociali appare largamente privo di contenuti concreti, viene automaticamente a sparire dal suo orizzonte uno dei temi fondamentali per la concreta vita di ciascun cittadino. È sempre più diffusa la consapevolezza che, quale che sia il voto, nulla mai potrà cambiare in un mercato, divenuto ormai il centro dell’esistenza di ciascuno, in cui le regole sono determinate in altre sedi. Ecco, allora, che la politica diventa un luogo vuoto, visto nella prospettiva delle esigenze di vita di ciascuno. Né un tale vuoto può essere riempito spostando l’attenzione sui diritti civili e sui temi della giustizia. Gli uni e gli altri sono argomenti certamente importanti, ma che riescono a svilupparsi appieno solo dopo che i diritti sociali siano stati adeguatamente soddisfatti. Ma se si guarda ad una situazione quale l’attuale, nella quale nuove povertà e diffusa precarietà dominano l’orizzonte, nella quale l’incertezza è l’unica chiave di lettura del futuro e nella quale vi è la consapevolezza che si tratta di temi su cui la politica non è in grado di incidere, non ci si può meravigliare del fatto che la politica sia sentita sempre di più distante e non in grado di appassionare i cittadini.

Affinché, allora, la politica riaccenda l’interesse dei cittadini e così restituisca vitalità alla democrazia, è necessario che si riappropri del potere di decidere. E, se il potere di decidere si è ormai collocato a livello sovranazionale, a seguito della globalizzazione, è necessario che anche la politica si porti a quel livello. Oggi, si assiste ad uno strano fenomeno. Le sedi nelle quali si decidono i destini di tutti, come collettività e come singoli, sono gli organismi di carattere internazionale, dalla Organizzazione mondiale del Commercio (WTO) alla Organizzazione mondiale della Sanità (WHO). Si tratta, tuttavia, di organismi dominati dalla burocrazia, ai quali la democrazia non ha accesso. La stessa Unione europea, del resto, ha nel deficit di democrazia, che segna le sue istituzioni, il proprio maggiore tallone di Achille e la causa prima dell’inesistenza di un sentire comune europeo. Occorre che la politica, tutta, cessi di essere sovranista, nel senso di guardare solo ai confini della propria nazione, e diventi consapevole che potrà riprendere realmente il governo della vita degli individui se riuscirà ad esprimersi ad un livello adeguato ad affrontare i temi posti dalla globalizzazione. Una politica ristretta nei confini nazionali è una politica impotente e, come tale, non può essere coinvolgente per i cittadini. Questo è un pericolo per la democrazia.