«Chi è di sinistra fa bene a rallegrarsi dei risultati elettorali, ma non eccederei nei festeggiamenti. E non solo per la marea astensionista che rischia di travolgere il già logorato sistema dei partiti». Le elezioni dei sindaci viste da Londra. Da Donald Sassoon, che l’Italia conosce bene per averci insegnato e presentato diversi dei suoi libri tradotti ed editi qui da noi. Allievo di Eric Hobsbawm (nelle librerie Eric Hobsbawm. Nazionalismo. Lezioni per il XXI secolo. A cura di Donald Sassoon (La grande storia Rizzoli, 2021). già ordinario di Storia europea comparata presso il Queen Mary College di Londra, Sassoon è autore di numerosi libri di successo, tra i quali ricordiamo Togliatti e il partito di massa. Il PCI dal 1944 al 1964, (Castelvecchi); Come nasce un dittatore. Le cause del trionfo di Mussolini, (Rizzoli,); Quo Vadis Europa? (Ibs); La Cultura degli Europei dal 1800 ad oggi (Rizzoli); Intervista immaginaria con Karl Marx (Feltrinelli). Il suo ultimo saggio, ha un titolo intrigante, e uno sviluppo che ci riporta anche all’Europa e alle difficoltà nell’essere all’altezza delle sfide del Terzo Millennio: Sintomi morbosi. Nella nostra storia di ieri i segnali della crisi di oggi (Garzanti).

Professor Sassoon, il centrosinistra ha vinto in tutte le grandi città dove si è votato. Si può parlare di una svolta?
Non ne sarei così sicuro. Certo, dati alla mano, chi è di sinistra in Italia fa bene a rallegrarsi, perché la riconquista della guida di grandi città, come Roma, Napoli, Torino, non è poca cosa e comunque non era data per scontata. Ma da qui a parlare di una svolta, o anche solo di un inizio di essa, andrei molto cauto. Bisognerebbe cercare di evitare quello che si fa di solito…

Vale a dire?
C’è un risultato e da lì si fa una estrapolazione di nuove tendenze. Come si è fatto con le elezioni in Spagna, considerate una vittoria per la sinistra, o con l’affermazione molto recente della Spd in Germania: Spd che comunque ha avuto uno dei risultati peggiori della propria storia. Stiamo parlando di un partito, quello socialdemocratico tedesco, che aveva il 40% solo vent’anni fa. Cercherei di evitare questa tentazione. Il dato importante, che conferma e rafforza una tendenza che è in atto da trent’anni almeno, è quello che riguarda la capacità attrattiva dei partiti tradizionali. Voi in Italia siete stati in prima fila, su questo ma anche su altre cose, in questa tendenza quando, dopo Tangentopoli, quello che era considerato il sistema partitico più solido in Europa occidentale – molti dicevano fin troppo solido visto che ci sono sempre gli stessi partiti – si è completamente disintegrato, con partiti che spariscono, altri, come il Pci, che si ricreano, si rifondano, un via vai continuo. Se poi passiamo ai vicini francesi, anche lì vediamo il collasso completo del Partito gollista e del partito che fu di Mitterrand, il Partito socialista francese. Se passiamo poi all’Austria, abbiamo visto le difficoltà enormi che hanno i due partiti tradizionali, la Democrazia cristiana austriaca e i Socialisti, che avevano più o meno retto il Paese per i primi trenta-quarant’anni del dopoguerra. Partiti che non sono riusciti neanche a indicare un candidato alla Presidenza dell’Austria nelle ultime elezioni. Chi è di sinistra si può compiacere dei risultati elettorali italiani ma sono risultati da prendere con molto buon senso. Con le molle, come si dice. E questo anche per altre due ragioni…

Quali, professor Sassoon?
L’astensionismo di massa. Che sarebbe sbagliato minimizzare, considerarlo un dato “fisiologico” nei sistemi politici occidentali ed europei. Sbagliato, tanto più per l’Italia che fino a qualche tempo fa, stiamo parlando di anni non di ere glaciali, era il Paese in cui si votava di più, senza che fosse obbligatorio, come lo è in Belgio o in Australia. La gente non vota più. Il rifiuto dei partiti tradizionali non si manifesta solo non votando questi partiti ma non votando in assoluto, come se le elezioni non contassero o riguardassero altri, quelli che “non hanno problemi”. L’astensionismo va letto non soltanto nel suo aspetto quantitativo, già di per sé preoccupante, ma per il suo carattere sociale, quasi che il voto si sia trasformato in un bene voluttuario, o come tale venga percepito dai ceti più “periferici”, non solo in termini geografici ma di censo, delle nostre società. Altro dato su cui varrebbe la pena ragionare è quello delle città. Le città sono a sinistra rispetto al resto del Paese. Prendiamo la Turchia: Erdogan non vince a Istanbul. Prendiamo Orban, altro autocrate: in Ungheria non vince a Budapest. Spostiamoci in Francia: Macron, per non parlare di Marine Le Pen, non vincono a Parigi, dove è sindaco, Anne Hidalgo, esponente di un partito, il Psf, in via di estinzione elettorale. A Londra, il sindaco è un laburista, e anche musulmano. Questo è un dato che fa riflettere. La sinistra una volta era la classe operaia, il popolo dei più deboli, quello delle periferie, mentre oggi sono gli intellettuali, i ceti più scolarizzati, quelli dei centri urbani. Sta cambiando moltissimo il paesaggio politico-culturale del mondo occidentale.

In Italia, la disaffezione verso i partiti tradizionali, era stata in passato intercettata dai 5 Stelle, che oggi sono in caduta libera…
Mi pare una cosa ovvia. Un partito che si dice populista, che sottolinea il suo essere né di destra né di sinistra, che è contro il vecchiume, che vuole aprire il Parlamento come una scatola di sardine, una volta che diventa un grande partito e che va al governo, non è più quello per cui era stato votato. Il problema di questi partiti è che avanzano quando sono deboli, ma quando sono forti perdono.

Tenendo insieme il recente voto tedesco e quello italiano, è una forzatura dire che l’Europa ha punito il sovranismo populista nelle sue varie declinazioni?
È un po’ presto per dirlo. Resta comunque lì, in agguato, pronto a intervenire quando la gente si mostra critica verso i governi. Torniamo alla Germania: quello che si sta delineando è un Governo a tre, una coalizione più ampia di quella degli anni passati, quando bastava che uno dei due grandi partiti tradizionali – la Cdu-Csu e la Spd – si alleasse con un altro partito, per poter governare. A ciò si aggiunga che i due partiti con cui la Spd si appresta a governare – i Verdi e il Partito liberale- non è che vadano poi tanto d’accordo: uno, i Verdi, è un partito interventista in economia, mentre l’altro, i Liberali, è iperliberista. La protesta potrebbe ancora indirizzarsi verso le estremità, a sinistra la Linke e all’estrema destra l’AfD. In un sistema come quello britannico o americano, dove è difficilissimo per un terzo partito intervenire, c’è invece il fenomeno di un esterno che diventa quasi il padrone di uno dei due partiti stabili. Boris Johnson e Donald Trump non sono due conservatori tradizionali, per nulla. Per di più in Gran Bretagna si è sfasciata l’egemonia dei due grandi partiti- il Labour e quello conservatore – in Scozia, dove hanno perso una cinquantina di seggi. Perfino in Gran Bretagna le cose stanno cambiando velocemente.

Nel voto italiano ha influito anche la caratura delle candidature a sindaco. Quelle del centrodestra si sono rivelate improbabili. È un problema di leadership?
Mancano i grandi capi, in ogni schieramento politico. Salvini che era considerato il successore dell’altro grande capo, Bossi se non addirittura di Berlusconi alla guida del centrodestra, è nei guai. I grillini non hanno saputo esprimere un leader. E non mi sembra che Giorgia Meloni riesca a riempire questo vuoto di leadership a destra. Fuori Italia, Macron è nei guai, e non è che la Le Pen se la passi poi tanto meglio…

Professor Sassoon, quanto incide oggi la comunicazione politica nel determinare gli orientamenti elettorali?
Questa è una domanda difficilissima. Io vivo in quello che noi in inglese chiamiamo bubble, cioè una bolla, una nicchia, in cui tutti quelli che si conoscono parlano di politica, guardano la televisione, sanno cosa ha detto Johnson o altri attori politici. Ma la stragrande maggioranza della popolazione sa a mala pena chi sono questi. C’è una ignoranza enorme dei nomi stessi dei leader. Se uno dovesse chiedere all’inglese medio chi è il Primo ministro, sì è Boris Johnson, anche perché è molto “vivace” e pittoresco, ma non saprebbe dire il nome del cancelliere dello scacchiere e di altri. Lo stesso nuovo leader laburista, Keir Starmer, è pressoché sconosciuto alle grandi masse. Nessuno sa chi è, mentre in molti sapevano chi era Tony Blair. Il che ci porta a concludere che non solo non ci sono più i partiti di una volta, non solo non c’è più il personale politico di una volta, non solo tutti i partiti sono più o meno in crisi, e chi non lo è adesso lo sarà domani, ma non ci sono neanche i leader carismatici di una volta.

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.