Lo scontro con la verità
Autonomia, quei cento miliardi che mancano

La conseguenza positiva del dibattito sull’Autonomia differenziata è che ha portato alla luce un confronto su dati reali, che per anni sono stati nascosti sotto il tappeto. Da quando si parla di Regionalismo differenziato, anche chi non è un esperto ha spulciato nei conti pubblici, redatti dalla Ragioneria Generale dello Stato, da Eurostat, Svimez e Banca d’Italia. Numerose prese di posizione di meridionalisti doc, ma anche di novelli appassionati all’argomento, che contribuiscono a colmare il deficit informativo che durava da anni sull’argomento.
Ma, di cosa parliamo? Prima di tutto di numeri scolpiti sulla pietra che evidenziano il più grave divario territoriale presente nel vecchio Continente. Sono evidenti, analisi e studi lo provano, le conseguenze di cinquanta anni di disinvestimento nel Mezzogiorno. Cosa dicono questi dati. Per cercare di dare un ordine alle cose proviamo a comprendere, anche noi, questa nuova narrazione. Partiamo, allora, dalla misura più rilevante quella rilevabile dai Conti Pubblici Territoriali e della spesa pubblica complessiva. Questa certifica che il valore pro-capite nel nostro Paese è di circa 16.000 euro, questo dato non è uniforme anzi: si attesta a 17.500 euro al Nord e circa 13.000 al Sud. Sulla sanità il dato è ancora più evidente con una differenza tra la Regione con più anziani, la Liguria, e la più giovane la Campania, di oltre 300 milioni di euro all’anno di trasferimenti in meno, a scapito della Regione del sud. Per fare un esempio concreto è più o meno il costo per la realizzazione di un grande ospedale. E questo avviene da oltre dieci anni. Ma questi numeri come incidono sulla vita reale, sulla carne ed ossa dei cittadini? Vediamo di fare qualche altro esempio. I dati più recenti sull’occupazione in Italia, elaborati dall’Istat, ci dicono che il tasso di occupati è oltre il 65% nelle Regioni settentrionali e del 42% in quelle del Mezzogiorno. Sulla Sanità, il numero dei posti letto per abitante nel SSN è 4 al Nord e 2,5 al Sud; i medici, i paramedici e altri dipendenti del comparto, sono in Emilia Romagna circa 80.000 ed in Campania poco più di 62.000, con un milione di abitanti in più; le liste di attesa, vero cancro del sistema salute, sono mediamente più lunghe di 12 mesi. Mi fermo qui ma di esempi e comparazioni se ne potrebbero fare molte altre spulciando con attenzione le migliaia di tabelle elaborate dagli Istituti preposti al monitoraggio della spesa pubblica, cosi per l’istruzione, la mobilità e l’ambiente. Un divario drammatico che incide anche sulla qualità dei servizi erogati ai cittadini. Arriviamo ora al punto. A cosa serve questo diffuso esercizio di lettura e divulgazione di dati, come mai è avvenuto dal dopoguerra a oggi, tanto da costringere il comitato Clep, guidato da Sabino Cassese, ad un mastodontico lavoro per cercare di definire i 223 LEP per le materie oggetto del regionalismo differenziato? Ci domandiamo, ma tutto questo rumore a cosa vuole portare? Si pensa, forse, di avviare il processo di trasferimento di competenze e materie alle diverse Regioni senza dare una risposta a tutta questa selva di numeri che fotografano un divario territoriale ormai insostenibile? Ma quale può essere una risposta efficace in termini di reale governo di questo fenomeno? Le strade ci sono, a partire dall’esempio tedesco che ha dato una risposta efficace all’unificazione est e ovest, con le enormi differenze tra i due vecchi Stati, partendo da un massiccio trasferimento di risorse aggiuntive nelle aree a divario. Oggi la Germania sta gradualmente riducendo la forbice. Questo ci dimostra che bisogna partire dagli stanziamenti. E qui casca l’asino! I dati sulla spesa pubblica, prima richiamati, ci dicono che per un riequilibrio, a regime, del pro capite al nord e al sud servono oltre 100 miliardi all’anno di maggiore spesa, senza considerare altri trasferimenti finanziari. Cento miliardi aggiuntivi, visto che è impossibile tagliare le risorse a chi oggi ne ha di più: il Nord. Fantascienza! Allarme confermato di recente nella lettera del governatore Bankitalia Visco, consegnata alla commissione del Senato che ha in discussione il disegno di legge Calderoli. In poche parole il Governatore si domanda quanto potrà costare l’Autonomia e se il Paese se lo potrà permettere. Lo stesso dubbio che attanagliò Francesco Saverio Nitti nel 1947 durante i lavori sul titolo V in Costituzione.
Il percorso verso l’autonomia differenziata si scontrerà con questa dura verità. Le politiche nazionali tendenti alla riduzione dei divari territoriali e delle diseguaglianze si è dimostrata insufficiente. Il centralismo ha sicuramente fallito. Ora bisogna capire se il rafforzamento dell’Autonomia potrà essere una soluzione. Un giusto precetto costituzionale che deve fare nello stesso tempo i conti con la perequazione territoriale, sempre annunciata e mai realizzata. Realismo e buon senso consigliano di evitare posizioni estreme. Sull’argomento si è accesa una contesa tra guelfi e ghibellini che impedisce un serio confronto sugli strumenti compatibili con il quadro macroeconomico pluriennale.
Dopo il meritorio lavoro di divulgazione e conoscenza di questi dati e cifre, che raccontano il più insostenibile divario territoriale esistente in Europa, bisogna raccogliere, e ci sono, tutte le iniziative e le volontà fattive. Basta iniziare con il piede giusto e garantire, anno dopo anno, quel quid in più di risorse per ridurre gradualmente il divario. In poche parole un cambio di direzione rispetto ai decenni trascorsi. Sarebbe già un buon risultato.
© Riproduzione riservata