Il vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, David Ermini, ha tra l’altro dichiarato, in una intervista rilasciata al Messaggero (21 marzo) «personalmente, sono dell’avviso che nel valutare la professionalità di un magistrato vi sia anche un controllo sulla qualità e sulla tenuta dei suoi provvedimenti: se ad esempio la gran parte dei processi chiesti da un pm finiscono in assoluzione o se le sentenze di un giudice civile vengono riformate in quantità, va considerato o no in una valutazione di professionalità?». Si tratta di una tesi, che è affiorata più volte nel dibattito pubblico sulle modifiche da apportare all’ordinamento giudiziario e che, sinora, non ha trovato il consenso di gran parte della magistratura associata. Può essere la soluzione per evitare il continuo ripetersi di inchieste all’apparenza esplosive, che si risolvono dopo anni in un nulla di fatto, o l’agonia di una giustizia civile, in cui non infrequentemente sentenza di primo grado, sentenza di appello e sentenza di legittimità dicono tre cose diverse ed il giudizio diventa eterno?

Certamente no! Ed è singolare che la proposta venga da chi, avendo vissuto in presa diretta i veleni della vicenda Palamara, dovrebbe rendersi conto delle implicazioni di una proposta che si risolve, in definitiva, in una commistione di due temi egualmente sensibili, ma profondamente diversi: carriera dei magistrati e merito dei processi. Lo scandalo Palamara e le rivelazioni contenute nel libro intervista, scritto con Sallusti, hanno rivelato l’esistenza, nell’ambito del mondo giudiziario, di alcuni magistrati mossi da un carrierismo sfrenato e di altri legati da solidarietà politica anche nella gestione delle vicende processuali. Per fortuna, la maggior parte degli appartenenti all’ordine giudiziario non è assoggettata a questa logica. Tuttavia, nel momento in cui vi sono le condizioni perché quel rischio concretamente esista, è razionale ed accettabile introdurre nei giudizi un ulteriore possibile condizionamento legato alla valutazione di se ed in che misura la decisione potrebbe influire sulla carriera del pubblico ministero o del giudice di grado inferiore? La pervasività dei collegamenti utilizzati per fare carriera, emersa a seguito della vicenda Palamara, non rischia, con una riforma del genere, di tradursi in un fattore di potente condizionamento delle decisioni giudiziarie?

A ben vedere, è pacifico che, per i giudici, le conseguenze dell’esito del processo sulla affermazione professionale degli avvocati sono del tutto indifferenti. Si tratta, difatti, di soggetti che, pur appartenendo allo stesso mondo, quello della giustizia, non possono lecitamente appartenere a cordate comuni o coltivare interessi personali convergenti. Questa considerazione porta, allora, a ritenere che una riforma del genere, con riguardo al pm, può avere senso e non tradursi in un aggravamento della situazione esistente, solo se si affianca alla separazione delle carriere. Quanto, poi, alla rilevanza della mancata conferma delle sentenze e, perciò, al rapporto tra giudici collocati nei diversi gradi di giudizio, la proposta di Ermini, oltre a presentare i rischi indicati, non terrebbe altresì conto del fatto che la percentuale delle riforme potrebbe non avere un nesso diretto con la preparazione e la capacità di giudizio.

Più convincente, sarebbe, allora affrontare con coraggio il fatto che, anche in magistratura, la regola uno vale uno è priva di base razionale: vi sono magistrati molto preparati ed altri meno, così come vi sono magistrati molto equilibrati ed altri meno. Ed allora, la via maestra non può che essere quella di una valutazione, da eseguire con tutte le garanzie e le cautele del caso, dell’attitudinale sulla base delle sentenze scritte. Si tratterebbe di una valutazione, i cui elementi di tensione sarebbero alleggeriti dalla circostanza che essa non influirebbe, comunque, sulla progressione economica, che come è noto è legata alla anzianità. Si aggiunga che la funzione del decidere mantiene inalterata la sua nobiltà a prescindere dal grado nella quale la si esercita.