Due giorni fa si sono svolti i funerali di Donatella, ventisette anni, suicida nel carcere di Montorio Verona, detenuta per reati legati a piccole cessioni di sostanze psicotrope. Una persona che non avrebbe dovuto stare rinchiusa. Ce ne sono tanti, e alcuni di loro non ce la fanno più, in questa estate del caldo e di una campagna elettorale da cui è esclusa la giustizia, e figuriamoci il carcere. Raccontata in numeri, Donatella era uno dei 47 che si sono tolti la vita dall’inizio dell’anno nelle prigioni italiane, uno dei cinque dei primi sette giorni di agosto. Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria è intervenuto finora solo con un’operazione di tipo progettuale e preventivo. Ma nessun provvedimento “salvavita”, cioè quello che servirebbe da subito per spezzare l’angoscia, la solitudine e i tanti problemi materiali quotidiani che producono l’insopportabilità del “malvivere” da prigionieri. Il capo del Dap Carlo Renoldi ha emanato una circolare, indirizzata a tutti i provveditori regionali e ai direttori degli istituti di pena. Un gesto di buona volontà, un progetto per il futuro. Che cozza però da subito, come è stato fatto notare da qualche operatore, con le criticità croniche delle carceri. Il problema del personale, sempre insufficiente, prima di tutto, e anche quella chimera dei corsi di specializzazione professionale di cui si parla molto nei convegni. E che poi rimangono lettera morta.

La circolare si chiama “Linee guida per la prevenzione dei suicidi”, e già questo è singolare. Vuol dire che prima dell’arrivo del dottor Renoldi questi indirizzi non esistevano? Il documento si rivolge allo staff multidisciplinare composto in ogni istituto dal direttore, il comandante degli agenti di polizia penitenziaria, oltre al medico, l’educatore e lo psicologo. Sono questi i soggetti incaricati di esplorare le situazioni a rischio, quelli in grado di far emergere gli “eventi sentinella” del disagio per poi costruire le pratiche operative della prevenzione in ogni situazione. Cioè si spiega agli operatori non tanto quello che dovrebbero fare d’ora in avanti per capire e quindi lanciare il segnale di allarme, ma quello che avrebbero già dovuto fare. L’ovvio, insomma. E infatti insorgono gli avvocati delle Camere penali e anche l’Ordine degli psicologi, cioè tutti quei soggetti che conoscono, al contrario dei magistrati, che cosa significhi per una persona, qualunque sia stata la sua vita fino al giorno precedente, l’ingresso e poi la vita in un carcere.

È indirizzata al capo dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Carlo Renoldi e al suo vice Carmelo Cantone e firmata dal Presidente Giandomenico Caiazza e dai responsabili dell’osservatorio carceri, gli avvocati Gianpaolo Catanzariti e Riccardo Polidoro, la lettera con cui l’Unione delle Camere penali chiede un incontro urgente per “essere messa a conoscenza della modalità con cui viene affrontata questa emergenza, che sta rendendo ancor più la detenzione in Italia contraria alle più elementari regole della vita in un Paese civile”. Gli avvocati penalisti chiedono e si chiedono anche in che cosa consisterebbe, concretamente, questo approccio multidisciplinare al grave problema, a questo allarme drammatico. Il che ci fa tornare al punto di partenza. Tutti i dirigenti del Dap che hanno preceduto quelli di nomina recentissima, come hanno affrontato la situazione, visto che non è proprio una novità il fatto che la detenzione produca morte e autolesionismo? Per non parlare delle gravi patologie psichiatriche che hanno ormai raggiunto il 13% dell’intera popolazione carceraria, il che significa parlare di 7.000 detenuti che stanno male, anzi malissimo. Che non dovrebbero essere lì dove sono stati rinchiusi, che sono già di per sé delle “sentinelle” del disagio, e lo gridano a voce alta, prima ancora che di loro si accorga qualunque staff multidisciplinare.

Dalle colonne di Avvenire, uno dei pochissimi quotidiani (insieme al Riformista e al Dubbio) che mostra sensibilità nei confronti di chi soffre, e particolarmente di chi è privato della libertà, si sente anche la voce del dottor David Lazzari, Presidente del Consiglio nazionale dell’ordine degli psicologi, che ci informa del fatto che “i presidi sanitari nelle carceri sono sguarniti di professionisti della salute mentale”. Il che va a sommarsi alla cronica carenza di personale di ogni tipo, mentre la dirigenza del Dap esorta i provveditori a dare particolare attenzione alla formazione specifica di quegli operatori che proprio non ci sono. Non vogliamo infierire, sono questioni antiche e non sarebbe giusto scaricarne le responsabilità su chi è arrivato da poco al vertice del Dap. Ma siamo concreti. E lo diciamo anche ai giudici. Ma è possibile che a nessuno venga in mente che concedere qualche telefonata in più, qualche contatto supplementare a quelli canonici con la famiglia, un po’ di umanità, insomma, per fare qualche passo in avanti e magari salare qualche vita? Tirate fuori il naso dalle scartoffie, per favore. Per la salute mentale di tutti.

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.