«Siamo vicini al punto di non ritorno». Con queste parole Antonio Guterres, il Segretario Generale dell’Onu, ha aperto i lavori ieri a Madrid di Cop25, la venticinquesima Conferenza delle parti (ovvero dei Paesi e delle istituzioni internazionali) che hanno sottoscritto la Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti del Clima messa alla firma nel 1992 a Rio de Janeiro ed entrata in vigore nel 1994. Cos’è quello di non ritorno se non un punto di massima instabilità? Un punto singolare che prelude a una catastrofe, nell’accezione che ne dava il matematico francese René Thom. Un punto in cui tutto cambia repentinamente e, spesso, irreversibilmente. Guterres ieri si riferiva al punto di instabilità climatica, su cui torneremo tra poco. Ma quel sostantivo, instabilità, è l’autentica cifra di questo venticinquesimo incontro al vertice dell’ecodiplomazia applicata al clima. Intanto Madrid, intesa come città sede della conferenza, è frutto di una instabilità contingente. È stata un ripiego: perché Cop25 doveva tenersi a Santiago del Cile. Ma l’instabilità politica del paese sudamericano, appunto, hanno consigliato di tenerlo, l’incontro, a Madrid, sebbene presieduto dalle autorità cilene.

Poco male, se l’instabilità politica relativa alla prevenzione (o mitigation, come dicono i tecnici) e all’adattamento (o adaptation, per dirla ancora in gergo tecnico) relativi ai cambiamenti climatici non fosse a più ampio spettro. Per capire i motivi dobbiamo fare un po’ di storia. Che ci sia un rischio climatico associato alle azioni umane – uso dei combustibili fossili, soprattutto, ma anche deforestazione e mutamento dell’uso dei suoli più in generale – gli scienziati hanno iniziato a pensarlo già negli anni 70 del secolo scorso: circa cinquant’anni fa. È sulla base di queste preoccupazioni, via via corroborate da una quantità crescente di dati e da modelli teorici sempre più raffinati, che nel 1992 – ovvero ventisette anni fa – si è arrivati a proporre una Convenzione Quadro delle Nazioni Unite: una legge di indirizzo. Saltiamo un po’ di anni in cui le applicazioni della legge hanno avuto un minuscolo successo (il Protocollo di Kyoto) e arriviamo a Parigi nel 2015, alla Cop21. Qui tutti i Paesi del mondo, in buona sostanza, prendono accordi – ahimè solo morali, non ci sono sanzioni per chi non li rispetta – per iniziare ad agire nel tentativo di contenere il previsto aumento della temperatura media del pianeta nel 2100 al di sotto e possibilmente molto al di sotto di 2,0 °C rispetto all’epoca preindustriale. Tutti sapevano che gli accordi di Parigi non erano sufficienti. E anche se fossero stati tutti rispettati, la temperatura a fine secolo avrebbe toccato una soglia ben superiore, intorno a 3,5 °C.

Ma l’impegno prevedeva un tagliando – una verifica – da fare nell’anno 2020 con la Cop26. Chi vedeva il bicchiere mezzo pieno salutava il primo accordo globale per la prevenzione dei cambiamenti climatici. Chi lo vedeva mezzo vuoto, indicava una pericolosa tendenza al rinvio. Oggi, rispetto a Parigi 2015, lo scenario politico è cambiato. In parte in peggio: il nuovo presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha prima annunciato e poi realizzato il ritiro del suo Paese dagli accordi di Parigi. Non è una defezione banale: gli Usa sono il Paese che emette più gas serra al mondo dopo la Cina; ha le maggiori emissioni pro-capite e ha la massima responsabilità storica nell’accumulo dei gas serra in atmosfera. Ma poi ci sono quattro notizie che vanno in segno contrario. In primo luogo negli stessi Stati Uniti molti movimenti e anche molti stati seguono una politica opposta a quella di Trump e in linea con gli accordi di Parigi. Poi si sono formati movimenti trasversali che chiedono ai governi di accelerare il loro impegno: da quelli religiosi, si pensi a papa Francesco e alla sua enciclica Laudato si’, a quelli giovanili: milioni di ragazzi in tutto il mondo scendono in piazza nei Friday for Future, grazie all’azione catalizzatrice di una determinata adolescente, Greta Thunberg. Poi c’è la Cina, che non solo ha deciso di ribadire il suo sì a Parigi, anche dopo la defezione di Trump, non solo si è impegnata ad accelerare il processo di decarbonizzazione delle sue industrie, ma sta puntando molte fiches di ricerca e finanziarie per continuare il suo sviluppo all’insegna dell’economia circolare. Infine l’Europa, che proprio qualche giorno fa per bocca della nuova presidente della Commissione dell’Unione si è data come obiettivo di accelerare i tempi e ottenere la “neutralità climatica” – in pratica, zero emissioni di gas serra al netto – entro il 2050 e possibilmente prima.

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Questa instabilità politica prelude sia a una caduta in una valle verde (con un pianeta finalmente in grado di accettare e vincere la sfida di un futuro climatico meno indesiderabile) sia a una caduta in una valle rovinosa (gli impegni non bastano e la temperatura aumenterà di oltre i 2,0 gradi indicati dagli scienziati come soglia da non varcare). Tutte queste instabilità rimandano alla principale, che è quella del clima. Cosa significa? Tutto nasce dal fatto che abbiamo acquisito consapevolezza che il clima sta cambiando a causa della presenza crescente di gas serra in atmosfera. Gas che, proprio come dice la parola, rendono la superficie del nostro pianeta come un orto in una serra. O, detta in altro modo, funzionano come una coperta. La coperta che abbiamo da alcuni millenni a questa parte è ideale, perché fa sì che la temperatura media del pianeta sia ideale: intorno ai 15 °C. Non ci fosse questa coperta, la Terra avrebbe una temperatura media di – 18 °C: sarebbe, cioè, un’enorme palla di neve. Il guaio è che, a causa delle attività dell’uomo – i dati, ormai, sono inoppugnabili – nell’ultimo secolo e mezzo e, soprattutto nell’ultimo mezzo secolo la concentrazione in atmosfera dei gas serra è notevolmente aumentata. Il principale di questi gas è passato da 280 a 415 parti per milione: un aumento di quasi il 50%. Risultato: oggi la temperatura media del pianeta è già di 1,1°C superiore a quella dell’epoca preindustriale. Con tutti gli effetti che già verifichiamo: aumento degli eventi meteorologici estremi, aumento del livello dei mari, scioglimento dei ghiacci, migrazioni di specie aliene.

Lo scorso anno gli scienziati dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc), alcune centinaia di esperti che lavorano per le Nazioni Unite hanno elaborato un rapporto e sulla base delle ricerche scientifiche più recenti ci hanno ammonito tutti: guardate che anche la soglia dei 2,0 °C è altamente rischiosa; meglio contenere l’aumento della temperatura entro gli 1,5°, se non vogliamo rischiare grosso. Dove per grosso si deve intendere una forte instabilità, appunto, nelle società umane e persino nella nostra salute. Una instabilità forse non sostenibile. Gli 1,5° sono poco più degli attuali 1,1 °C. Il margine per evitare pericoli maggiori di quelli che già conosciamo è piccolo. Abbiamo tempo fino al 2030: o riduciamo fortemente le emissioni di gas serra entro dieci anni e poi le azzeriamo (al netto) entro il 2050 o non coglieremo l’obiettivo. La partita è difficile. Al limite dell’impossibile. Per rispettare il ritmo indicato dall’Ipcc dovremmo di qui al 2030 diminuire le emissioni di gas serra di quasi l’8% l’anno. Significa un cambio radicale e repentino del paradigma energetico dominante. Gli ultimi anni non ci incoraggiano. Malgrado Parigi, le emissioni globali non sono diminuite, ma aumentate. In un decennio il ritmo dell’aumento è stato dell’1,5%. Ma torniamo a Madrid. Siamo vicini al punto di non ritorno. Ovvero al punto di instabilità indicato dall’Ipcc: quello in cui si supera la soglia degli 1,5°C. Cop25 dovrebbe prenderne atto e i rappresentanti dei Paesi convenuti nella città spagnola dovrebbero dare un colpo d’ala formidabile. Difficilmente il 13 dicembre prossimo, quando Cop25 chiuderà i battenti, assisteremo a un simile sbatter d’ali. Molto probabilmente le decisioni rilevanti saranno demandate a Cop26, che si terrà il prossimo anno a Glasgow, in Scozia. E allora il punto di non ritorno sarà molto più vicino. Un dettaglio: molti considerano il cambiamento del clima la minaccia più grave che incombe sull’umanità in questo secolo.

Pietro Greco

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