Il caso
Caso Regeni, doppia ipocrisia di Stato
Ho pensato spesso in questi anni a Giulio Regeni, il cui sorriso contagioso che abbiamo visto tante volte in fotografia paradossalmente decifravo negli occhi vispi dei ragazzi egiziani, minorenni non accompagnati, ospiti dei centri di pronta accoglienza della Caritas, ai quali insegnavamo la nostra lingua. Indimenticabili frugoletti carichi d’energia vitale che spesso non erano mai andati a scuola, difficili da tenere fermi seduti al banco a scrivere e sillabare, tuttavia forse proprio per questo capaci di stupirti con risposte imprevedibili che denotavano intelligenza e fantasia. Nel momento in cui dovevamo controllarli, a volte ci sentivamo quasi sopraffatti, ma quando a un certo punto di colpo non sono arrivati più, chissà forse proprio a causa della crisi legata al caso Regeni, ne abbiamo sentito la mancanza.
Venivano quasi tutti dal governatorato di Gharbiyya, una regione rurale a nord del Cairo, non molto distante dal luogo in cui il 3 febbraio 2016 venne ritrovato il corpo orribilmente martoriato del giovane italiano, lungo la strada che da Alessandria conduce verso la capitale. Nato a Trieste, aveva ventott’anni e stava portando avanti una ricerca sui sindacati per conto dell’università di Cambridge. Era stato rapito il 25 gennaio, nel quinto anniversario dei tumulti di piazza Tahrir. Facile pensare al coinvolgimento dei servizi segreti: in questi casi purtroppo la verità viene raramente a galla, anche perché, prima di enunciarla, se non sancirla, bisogna tenere presente i contesti, valutare le conseguenze, verificare le fonti. Non c’è bisogno di conoscerere il Leviatano di Thomas Hobbes per rendersene conto. E nemmeno Il principe di Nicolò Machiavelli per capirlo. Anche se, a dire il vero, chi ha letto questi classici nutre forse meno illusioni sulla natura dello Stato di diritto rispetto a quelli che avanzano alla cieca nel Paese dei Balocchi facendo supposizioni.
Per restare al crudele omicidio del nostro dottorando e giornalista, emblematico esponente di una generazione giramondo e cosmopolita sulla quale fece perno il bacino elettorale dei Cinque Stelle, non si può certo negare il lavoro svolto con pazienza, perizia, presumibile accortezza, dalle magistrature coinvolte. Eppure sono trascorsi quattro anni e mezzo di indagini e l’ultima notizia, diffusa ieri l’altro, segna un secco arretramento anche rispetto alle più caute aspettative: l’incontro on line fra le procure dei due Paesi direttamente interessati non ha prodotto alcunché. Anzi, come è stato giustamente sottolineato, la richiesta egiziana di avviare ulteriori azioni investigative finalizzate a meglio delineare l’attività del giovane assassinato, rischia di riportarci ancora più indietro, nell’oscurità della tipica ragion di Stato, alimentando la sfiducia di quanti sin dall’inizio denunciarono l’ipocrisia delle stesse democrazie occidentali, pronte a sbandierare il vessillo della giustizia per ottenere il consenso popolare, senza rinunciare alla convenienza economica degli affari da stipulare.
Da qui l’evidente imbarazzo della Farnesina, sul punto di richiamare l’ambasciatore almeno per consultazioni temporanee, mentre il presidente del Consiglio sembra prendere tempo, consapevole della delicatissima situazione in cui si trova il nostro Paese, nell’estate del Coronavirus il più vulnerabile dei moli al centro del Mar Mediterraneo. Da una parte abbiamo i genitori di Giulio Regeni, con tutta l’opinione pubblica schierata al loro fianco; dall’altra la maxicommessa per la vendita di armamenti al Cairo del governo italiano. Sana indignazione e mirata accortezza geopolitica. Le giravolte del presidente al-Sīsī e le manifestazioni a sostegno di Giulio. Diritti umani ed equilibri internazionali.
Difficile trovare un varco utile per superare lo stallo. Ripeto: io, nel mio piccolo, ho provato a farlo, se non altro liricamente, alla ricerca di un trofeo di giovinezza perduta, insegnando i verbi a Mohamed, quindici anni, pressoché analfabeta, il quale non sapeva nulla di Giulio Regeni, voleva solo tornare a casa, ma a quanto pare suo padre glielo impediva, restando in attesa dei soldi che il figlio gli avrebbe potuto inviare quando sarebbe stato assunto in pizzeria.
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