Gesù ammonisce: «Non c’è nulla di nascosto che non sarà svelato, né di segreto che non sarà conosciuto. Pertanto ciò che avrete detto nelle tenebre, sarà udito in piena luce; e ciò che avrete detto all’orecchio nelle stanze più interne, sarà annunziato sui tetti.» (Luca, 12, 2-3). Ed è questo un insegnamento al quale intendo attenermi, sebbene prudenza vorrebbe che non si parlasse di corda né in casa dell’impiccato né in casa del boia. Del resto, non v’è ragione alcuna perché si debba tacere, di fronte alla spregiudicatezza di taluni esponenti di quell’aristocrazia togata prodotto della riforma dell’ordinamento giudiziario, nota come «Riforma Castelli», dal nome del guardasigilli leghista del governo Berlusconi che la propose nel 2002, approvata con legge 25 luglio 2005, n. 150, e completata da una serie di decreti legislativi emanati nella prima metà del 2006.

Se, illo tempore, nel rispetto dell’articolo 107 della Costituzione, in virtù del quale «i magistrati si distinguono tra loro solo per le funzioni», il concetto di «carriera» era estraneo all’organizzazione della magistratura e il «capo» di un ufficio altro non era che un primus inter pares, investito di responsabilità organizzative nell’interesse di tutti e di tutti al servizio, oggi non è più così: concentrati, in nome dei “miti” dell’efficienza e della trasparenza, sempre maggiori poteri in mano ai dirigenti degli uffici giudiziari, si è creata una «divisione tra la magistratura alta e quella bassa». In particolare, mentre si sono attribuite ai capi degli uffici di procura tutte le scelte relative all’esercizio dell’azione penale, si è peraltro abolito il cosiddetto sistema tabellare che, bene o male, imbrigliava la discrezionalità del «capo»; al che sono conseguiti, a catena, l’affievolimento dell’indipendenza dei singoli sostituti, vincolati alle decisioni sostanzialmente insindacabili del «capo», nell’esercizio delle funzioni, nonché il venir meno sia del pluralismo decisionale sia della diffusa assunzione di responsabilità all’interno dei singoli uffici.

Il resto lo fa quello che Friedrich Nietzsche chiama Wille zur Macht, cioè la cieca tendenza degli organismi a espandersi a detrimento del circostante, nonché necessità di dominare, occupare, sottomettere, neanche, poi, in virtù di un supposto «piacere» che ciò conferirebbe, ma per la pura tensione espansionistica in sé: unico comun denominatore di tutti gli episodi di malcostume che hanno afflitto la magistratura, specie negli ultimi anni, l’ansia degli interessati di avere o mantenere un incarico direttivo o di incrementarne l’importanza, dato che un organismo non fa altro che cercare di essere ed essere di più. È, dunque, semplicemente disgustoso ascoltare gli individui de quibus agitur dolersi, dando la grottesca sensazione di descrivere sé stessi mentre si osservano allo specchio, della corruzione a tutti i livelli della vita economica, civile e politica; della pratica endemica degli scambi di favori; dello sfruttamento di risorse pubbliche a vantaggio di interessi privati; della diffusa mafiosità dei comportamenti; di una sorprendente maggioranza di concittadini che approva e nutre questa impresa. Per non dire di quanto sia irritante sentirli chiedersi come si sia giunti alla misera situazione nella quale ci si trova. E non solo perché la funzione di tanto ostentata indignazione, per dirla con Alessandro Manzoni, è quella dei bei vasi dello scaffale più alto nelle farmacie: «Sono vuoti, ma servono a dar lustro alla bottega»; quanto, piuttosto, perché diversamente dalla «gente», alla quale Fabrizio De Andrè riserva il proprio sarcasmo in Bocca di rosa, che «dà buoni consigli/Sentendosi come Gesù nel tempio», sol perché «non può più dare cattivo esempio», costoro il cattivo esempio possono ancora ben darlo e, ahimè, lo danno pure.

Accanto a loro, si schiera, peraltro, la pletora di famigli, cioè «todos los ricos, nobles, y los delinquentes», direbbe ancor’oggi, come nel 1577 a proposito dei «familiari» del Sant’Uffizio in Sicilia, il viceré Marco Antonio Colonna, che affolla redazioni di giornali, spesso online, ed emittenti televisive, a diffusione spesso locale, mossa evidentemente da vivi motivi di gratitudine nei confronti dell’aristocrazia togata, di cui veicolano l’illuminato pensiero, non perdendo occasione, ad esempio, di ripetere, per un verso, che esiste una vasta rete di consiglieri fiscali, commercialisti esperti in diritto societario, tributario, bancario, del lavoro e, perché no, giornalisti chiamati a svolgere un fondamentale ruolo di consulenza e di supporto ad attività delinquentesche; e, per l’altro, che, nell’ambito di questa vasta rete di protettori, un ruolo a parte sia da assegnare agli avvocati difensori, perché il loro intervento professionale si sovrappone al diritto di difesa: mai che si riconosca, magari obtorto collo, che la stragrande maggioranza degli avvocati impegnati nella difesa di indagati e/o imputati, prestano la loro assistenza legale nel pieno rispetto delle regole della deontologia professionale; anzi, lungi dal difenderli di fronte all’opinione pubblica, perché rendono un servizio non solo ai loro clienti, ma agli interessi della giustizia, si avanzano, piuttosto, riserve o insinuazioni nei loro confronti, ricorrendo, per evitare querele, a espedienti retorici subdoli, odiosi e insidiosi, accomunandoli nel giudizio negativo ai propri impopolari assistiti.

In quasi cinquant’anni, ho visto scorrere tanta acqua torbida o nera sotto i ponti dell’amministrazione della giustizia, ma non m’era mai capitato d’imbattermi in una vicenda in cui l’abuso è talmente spudorato da far supporre una consegna o intese sotto banco. Una vicenda vieppiù intrigante, perché vittima, detto col disagio che l’antipatico pronome suscita nei lettori delle Pensée, c’est moi. Non la sola, naturalmente, e non la principale. Si tratta di vicenda condotta a emersione da una questione preliminare spiegata dall’avvocato I.I., difensore dell’incolpato, nel corso della prima udienza, davanti alla Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, nel procedimento a carico del dottor E.F.. Questo l’incipit della perorazione difensiva (cito dalla registrazione del 18 febbraio 2022, reperibile in Radio radicale): «Ci sono alcune questioni, signor Presidente e signori Consiglieri, e non (…) so (…) se sarò più imbarazzato io nel rappresentarle oppure (se maggiore sarà l’imbarazzo per) la procura generale (della Cassazione) e anche (per) il Consiglio (…). (Quello di cui parlerò) riguarda, infatti, una prerogativa dello Stato al rispetto del principio di legalità: ho partecipato a un interrogatorio del dottor E.F. davanti alla procura generale (della Cassazione) senza conoscere gli atti; una volta, tuttavia, che questi sono stati versati (nel presente procedimento disciplinare), è stato sorprendente quello che da essi si è potuto apprendere». E il riferimento è alle intercettazioni: «Agli atti del fascicolo ci sono una infinità di telefonate tra me e i miei assistiti, il dottor E.F. e il dottor Lupacchini».

Inspiegabile, continua il difensore, come mai la procura di Salerno e la procura generale della Cassazione abbiano ritenuto di calare una sonda tanto invasiva nelle sue conversazioni difensive con i propri assistiti. Di qui lo sfogo critico, in cui è involuta una denuncia: «A me non interessa che qualcuno dica si tratti di captazioni inutilizzabili: esse sono illegali! Tant’è che direi alla procura generale (della Cassazione) che (…) deve procedere contro sé stessa per illeciti disciplinari oppure (…) contro Salerno. È un fatto grave, perché qui non c’è la tutela del diritto di difesa, che è diritto inviolabile secondo la Costituzione per la persona fisica e una prerogativa dello Stato alla legalità». Quindi, un ulteriore affondo: «(…) in alcune (di tali conversazioni) c’è addirittura scritto “da valutare” (…): ma come, da valutare? Ma perché deve essere valutata una conversazione (…) tra un difensore e il suo assistito? E da chi deve essere valutata? Chi è che ha il diritto di farlo? La procura generale (della Cassazione)? Forse, la procura di Salerno? Riflettiamo anche su questi aspetti. (…), a me serve capire perché è stato fatto questo; perché la procura di Salerno avesse necessità di sapere in anticipo (il contenuto delle) mie conversazioni difensive; perché ha così invasivamente (fatto irruzione) nella vita difensiva di un (mio) assistito». Sarebbe molto grave, e mi rifiuto di crederlo, se gli investiganti salernitani avessero voluto conoscere in anticipo le strategie difensive degli assistiti dell’avvocato I.I., per meglio e più utilmente calibrare le performances accusatorie. Ancor più grave sarebbe qualsiasi altra spiegazione, ma non è nel mio stile avventurarmi a formulare ipotesi fantasiose. Resto, invece, ai fatti.

L’articolo 103 comma 5 del codice di rito penale vieta le intercettazioni telefoniche, nel caso comunichino difensori, consulenti tecnici o ausiliari degli stessi; oppure uno dei predetti e l’assistito, sia esso l’imputato, il sottoposto alle indagini, una parte eventuale, l’offeso. Certo, non si può pretendere che a tutti questi soggetti sia garantita l’assoluta segretezza di qualsiasi emissione o ricezione, con chiunque interloquiscano e su ogni argomento: fosse così, l’establishment criminale acquisterebbe a buon mercato basi-santuario da cui tessere indisturbato le sue tele; garantiti dalla segretezza assoluta sono, dunque, soltanto i discorsi relativi a difese o consulenze, anche se diretti al terzo o da lui emessi, come, ad esempio, fra difensore e testimonio; ovvio, peraltro, che le operazioni difensive non devono essere malaffare delinquentesco. Ebbene, che le conversazioni intercorse tra l’avvocato I.I. e i suoi assistiti attenessero sempre ed esclusivamente alla difesa e fossero contenute nel penalmente lecito, ben lo sapeva chi materialmente captava i messaggi, ma era certamente circostanza che non poteva sfuggire neppure a chi, inquirenti salernitani e procuratore generale della Cassazione, ha disposto la trascrizione e il versamento in atti di quel materiale illegalmente raccolto, dunque non valutabile ad alcun fine processuale. È forse temerario, allora, pensare che anche questi ultimi abbiano condiviso tacitamente, salvo un non meno inquietante «non aver compreso il fatto», nell’illegale acquisizione, nel procedimento disciplinare? Il Consiglio superiore della magistratura, come le stelle del romanzo di Archibald Joseph Cronin, The Stars Look Down, sembra sia rimasto e voglia rimanere, purtroppo, soltanto a guardare.

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Giusfilosofo e magistrato in pensione