Ormai è una corsa contro il tempo. I giudici provano a mettere il turbo al processo sui presunti pestaggi denunciati da quattro ex detenuti del carcere di Poggioreale nel lontano 2012-2014. Secondo il nuovo calendario di udienze, si procederà al ritmo di una seduta ogni quindici giorni. Dopo i lunghi rinvii del passato, il processo noto anche come «Cella zero», dal numero della cella più temuta del grande carcere cittadino, si appresta ad arrivare alla fase conclusiva del dibattimento provando a evitare la prescrizione che rischia di incombere.

Cinque gli episodi indicati al centro delle accuse che, a vario titolo, sono contestate ai dodici agenti della polizia penitenziaria sotto processo, e all’epoca dei fatti (parliamo di quasi dieci anni fa) in servizio presso la casa circondariale di Poggioreale. Si va dall’abuso di potere nei confronti di persone detenute al reato di maltrattamenti. Perché, secondo la denuncia di quattro ex detenuti, sarebbe stato con la violenza che una squadretta di agenti avrebbe regolato i rapporti con i reclusi, punito sguardi o parole di troppo. «Il metodo Poggioreale» lo ha definito qualcuno. La stessa definizione è emersa anche, più recentemente, dalle chat dell’inchiesta sui pestaggi avvenuti il 6 aprile 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Quello sulla «Cella zero» è a Napoli il primo processo incentrato su ciò che accade nel chiuso di un istituto di pena. I dodici agenti imputati si difendono, respingendo le accuse.

Finora, nel dibattimento, lo scontro tra le tesi di accusa e difesa si è concentrato sull’attendibilità dei riconoscimenti degli imputati da parte delle vittime. Anche l’udienza di giovedì è stata dedicata all’analisi delle attività investigative svolte per dare un nome e un volto agli autori delle umiliazioni e dei pestaggi denunciati dagli ex detenuti, alla verifica delle testimonianze con riscontri sui registri delle presenze degli agenti in servizio nei giorni in cui si sarebbero consumati i soprusi. Secondo il racconto di chi in quella cella ha detto di esserci finito, tutto accadeva di notte. Che la squadretta fosse in azione lo si capiva dal rumore dei passi e dal suono delle mazze di ferro battute contro le sbarre della cella. Bastava che ci fosse stato nella giornata un battibecco, una risposta dai toni più duri, un commento di troppo. Entrare nella cella zero voleva dire essere costretto a spogliarsi, fare flessioni e prendere le botte, stare poi in isolamento fino a quando non si riusciva a reggersi di nuovo in piedi sulle proprie gambe.

Nel ricordo degli ex detenuti la cella zero era una stanza senza arredi. «Mi fecero spogliare, mi fecero togliere anche gli indumenti intimi e in tre iniziarono a picchiarmi, a insultarmi e farmi eseguire flessioni sulle gambe – si legge in una delle testimonianze degli ex detenuti finita al vaglio degli inquirenti – Si alternavano a picchiarmi con schiaffi mirati alla testa e calci alla schiena». Per gli ex detenuti «cella zero» era un luogo di umiliazioni e violenza. Oggi a Poggioreale quella stanza al piano terra, spoglia e arredata solo con un letto ancorato al pavimento con delle viti, non esiste più. Esiste nelle ricostruzioni al centro di un dibattimento iniziato nel 2017 e ancora in corso in primo grado, sospeso tra vari rinvii e ora sottoposto a un’accelerazione che si spera possa servire a portare il processo alla sua naturale conclusione. Tra coloro che hanno raccontato le torture di «cella zero» c’è anche Pietro Ioia, attuale garante dei detenuti di Napoli.

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Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).