«La dinamica violenta attuata con le apparenze e la copertura della perquisizione straordinaria ha anche un nome: “sistema Poggioreale”». È questa l’espressione che il gip Sergio Enea utilizza per inquadrare l’ipotesi alla base dell’inchiesta sui pestaggi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere e per descrivere lo schema nel quale si muovono gli agenti penitenziari sotto accusa e i loro dirigenti, uno schema che sembra essere ben collaudato più che casuale. Di “sistema Poggioreale” si parla nelle chat tra gli indagati.

«Se si fosse trattato di un episodio del tutto isolato era lecito attendersi che gli agenti avrebbero mostrato quantomeno una qualche esitazione nel colpire i detenuti con schiaffi, pugni, calci e colpi di manganelli e ciò sarebbe emerso dai filmati – osserva il gip – Invece si nota che gli agenti, senza alcun apparente accordo ma in modo del tutto naturale, compiono dei gesti quasi rituali, come nel caso in cui si dispongono sovente a formare un corridoio umano tutte le volte che i detenuti si apprestano a transitare e cominciano a picchiarli con estrema violenza, giungendo in alcuni casi ad accanirsi su di loro sebbene siano inermi al suolo». Come se ci fosse della naturalezza in tanta violenza. Come se l’uso della violenza fosse considerato il migliore, se non l’unico espediente per ottenere il rispetto delle regole. «E proprio in ragione di ciò – ragiona il gip – quello che agli occhi del cittadino comune appare come un’orribile mattanza, agli occhi degli operatori di polizia penitenziaria diviene un’operazione eseguita in modo brillante ed efficace». Per questo nessuno fra gli agenti tentenna di fronte ai pestaggi e nessuno si indigna quando 292 detenuti del reparto Nilo vengono fatti uscire dalle celle, picchiati e umiliati e poi messi in isolamento nel reparto Danubio senza cibo, coperte e cure.

Invece gli agenti della penitenziaria si sorprendono quando in carcere, dopo le violenze, arriva il magistrato di sorveglianza. «Tutti si sorpresero della mia presenza all’interno della casa circondariale alle ore 21,30 nel reparto Danubio – si legge nella testimonianza del magistrato Marco Puglia allegata agli atti dell’inchiesta – Rimasero basiti. In ogni mio spostamento fui seguito, come un’ombra, dalle tre unità della polizia penitenziaria addette al Danubio. Chiesi loro più volte, non disponendo di carta e penna, che mi fossero portati un foglio e una penna in maniera che potessi annotare ciò che vedevo. Lo chiesi una decina di volte ma, quando finalmente riuscii ad averlo, costoro lo trattenevano in mano. Fatto sta che decisi di annotare i particolari sul mio smartphone. Mi scrissi i nomi precisi dei detenuti stranieri che volli ricordare atteso che volevo essere preciso nell’indicazione degli stessi. Percepii un leggero sgomento da parte loro per la mia presenza a quell’ora tarda».

Nessuno, presumibilmente, si aspettava che quel pestaggio sarebbe passato presto all’attenzione della Procura. Cinque telecamere del circuito di sorveglianza del carcere hanno ripreso le scene della violenza nonostante i tentativi di depistaggio e di inquinamento delle prove che pure vengono contestati ad alcuni degli agenti e dei dirigenti indagati. E l’analisi dei filmati ha portato gli inquirenti a ritenere che «i pestaggi non sono stati frutto dell’estemporanea escandescenza di qualche agente o ufficiale di polizia penitenziaria, ma sono stati accuratamente pianificati e svolti con modalità tale da impedire ai detenuti di conoscere i propri aggressori. Le vittime infatti erano costrette a camminare con la testa rivolta al suolo e nella sala della socialità erano posti con la faccia al muro mentre venivano picchiati alle spalle».

«Ed è proprio questo il sistema Poggioreale: mani dietro alla schiena e occhi a terra, e poi botte passando sotto il cordone di agenti – racconta Pietro Ioia – Anch’io ci sono passato. All’epoca ci fecero anche spogliare, ero nudo mentre mi picchiavano». Ioia è il garante cittadino dei detenuti, ma in passato è stato in cella ed è tra gli ex carcerati dalle cui denunce è scaturito il processo sulla cosiddetta “cella zero” di Poggioreale che da anni pende dinanzi al Tribunale di Napoli. «Vedere le immagini di quanto accaduto a Santa Maria Capua Vetere mi ha fatto male – racconta – Ormai siamo a un punto di non ritorno. Il carcere come istituzione ha fallito, è un luogo che produce solo rabbia e stress sia in chi ci vive sia in chi ci lavora, abbrutisce detenuti e agenti. Non si può continuare così. Adesso è veramente il tempo di un vero cambiamento».

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Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).