In occasione della scomparsa di Gianni Minà, morto all’età di 84 anni dopo una carriera giornalistica di grande successo, riproponiamo qui di seguito una sua intervista nella quale il conduttore e scrittore ripercorre la sua carriera e fornisce spunti preziosi sulla sua maniera di guardare il mondo.

È impossibile riassumere la vita professionale di Gianni Minà, giornalista, scrittore, documentarista, autore e conduttore televisivo. Basti dire che ha conosciuto e intervistato tutti, che il suo nome è legato a scoop mondiali (come gli incontri, durati molte ore, con Fidel Castro, diventati poi libri e documentari), che si è occupato con la stessa competenza e passione di sport, musica, politica, diritti umani, Latinoamerica. Non ama Wikipedia, ma per capire cosa questo uomo abbia fatto è necessario dare un’occhiata proprio lì, e storditi ci si domanderà come sia stato possibile, quante vite ci siano volute per avere una carriera così piena, variegata. Qualcuno si è permesso di dire che le sue interviste erano troppo accondiscendenti. Non è vero (e qui lui spiega perché). Addirittura nel ’78 fu espulso dall’Argentina per aver fatto domande scomode sui desaparecidos e aver cercato di raccogliere informazioni in merito (quello che ogni giornalista dovrebbe fare: indagare). Il fatto, che non va giù a non pochi colleghi, è che Minà dei grandi personaggi è riuscito sempre a diventare amico, a fare in modo che con lui si aprissero. Questione di correttezza, di professionalità, certo. Ma ci vuole anche qualcosa di più, e che difficilmente viene perdonato: talento.

Oggi sei tu un maestro di giornalismo. I tuoi maestri, invece, quali sono stati?
Maurizio Barendson, che mi ha insegnato come fare un servizio televisivo “che tien ‘o sang”, che tiene sangue, sostanza; Antonio Ghirelli, il mio primo direttore a Tuttosport che mi ha insegnato a stare nei tempi alla consegna di un articolo. Prima, infatti, quando stavo fuori tempo massimo avevo l’abitudine di dettare a braccio i pezzi per il quotidiano ai “dimafonisti”. E infine Zavoli, scomparso da poco, che mi ha insegnato l’arte dell’uso della parola, soprattutto quando si doveva parlare di argomenti ostici.

America Latina, una tua grande passione. Un mondo. Qual è la nazione in cui ti sei trovato più a tuo agio, che hai amato e ami di più, o forse che senti di aver compreso di più?
Ho conosciuto a fondo il Messico, l’ho amato molto, lì ho conosciuto la mia prima moglie, Georgina, e vive la mia prima figlia, Marianna. Il Messico è una nazione potente, soprattutto per la sua gente. A questo Paese è legato il mio ricordo più spaventoso: nel 1985, un terremoto aveva devastato Città del Messico; non c’erano i mezzi di comunicazione di oggi, e per sapere notizie su mia figlia e mia moglie mi aveva aiutato un radioamatore italiano che fece un ponte radio fino a lì. Per disperazione, proposi alla Rai un’intervista a De La Madrid, il presidente di allora, per poter ripartire subito. Riuscii a intervistarlo, e a incontrare la mia famiglia che non aveva subìto danni ingenti. Ma vidi un Paese in ginocchio, la stessa devastazione che avevo visto, anni prima, nel terremoto del Friuli. Poi, anni dopo, sono partito a seguito del Premio Nobel Rigoberta Menchù a far visita ai campi profughi vicino alle zone del Chiapa. E una manciata di anni più tardi sono andato in quei luoghi a intervistare, due volte, il subcomandante Marcos.

Fidel Castro. Lo hai intervistato nel 1987 la prima volta, e dal lungo incontro sono nati un libro e un reportage. Poi l’hai intervistato ancora nel 1990, e i due incontri sono stati riuniti in un nuovo libro, Fidel. Al tempo, ricevesti molte critiche perché ti si contestò di non avergli fatto domande “scomode”.
Avevo preparato meticolosamente quella intervista per anni, insieme a Saverio Tutino; e avevo fatto molti viaggi a vuoto, ma la costanza mi ripagò. L’intervista durò 16 ore, parlammo di tutto, anche dei diritti umani. Queste domande sono sia nel libro, sia nel documentario che avevo montato per la Rai. Fu uno scoop mondiale, che all’estero mi hanno riconosciuto. Al Festival di Berlino, ad esempio, anni dopo ho guadagnato il Berlinale Camera alla carriera, in Italia niente. Nel nostro Paese non solo avevano scritto che avevo fatto una intervista “in ginocchio”, ma subii un processo, a Trento, dove Carlos Franqui mi denunciò per diffamazione. Vinsi la causa. Comunque, nel 1992 chiesi al governo cubano di intervistare tutti i dissidenti. Mi dettero il permesso e, con la collaborazione di Alessandra Riccio che mi prestò casa sua all’Avana, li intervistai tutti. Al ritorno, in Rai mi dissero che i dissidenti cubani non interessavano a nessuno. Quelle interviste, sono da allora nel mio magazzino, ancora tutte da montare.

Hai iniziato occupandoti di sport. Segui ancora il calcio?
No, da anni. Addirittura non lo vedo più. Mi stanca, mi annoia, non mi entusiasma.

Il linguaggio, le iperboli. Tu sei stato il primo a presentare i tuoi ospiti con “grande”, “grandissimo”. Ma avevi personaggi come Fellini, Ungaretti, i Beatles. Ti hanno prontamente copiato, solo che adesso “l’unico, il grandissimo, l’enorme” viene usato anche per un ragazzo al suo primo disco…
L’oggi riflette quello che siamo vivendo in questo momento. Culturalmente stiamo vivendo un momento basso. Durerà molto, e i ragazzi usano quegli aggettivi perché non hanno più le pietre di paragone che avevamo noi in quel preciso periodo storico.

Il tuo ultimo libro termina con il tuo primo incontro con Muhammad Ali. Si capisce che poi siete diventati amici.
Quando passava per Roma con sua moglie Lonnie, veniva a casa mia. Ci faceva piacere godere di momenti di amicizia condivisa. In una di queste cene venne pure Nino Benvenuti.

Stavo pensando che noi diamo per scontato che tutti sappiano chi siano Muhammad Ali, Ungaretti. Ma non teniamo conto di un fatto drammatico: in Italia, la memoria è molto selettiva e molto corta.
A proposito di memoria corta, un giorno Fernando Birri, cineasta argentino che viveva qui a Roma, mi disse sconcertato: “Sai, noi viviamo nel mito del realismo italiano. Ma l’altro giorno a un giornalista italiano esperto di cinema dissi quanto eravate fortunati voi ad avere maestri come Zavattini. E lui mi ha risposto: ‘Zavattini chi?’”.

Le tue interviste sono sempre state come delle chiacchierate. Qual era il segreto per mettere a proprio agio i tuoi ospiti?
Mi preparavo in maniera maniacale su chi dovevo intervistare. Paradossalmente, prima era più facile prepararsi, perché non c’era Wikipedia, che ha impigrito la testa delle persone. E poi si tratta un incontro a due, senza egocentrismi inutili; se l’intervistato non è pressato, non è messo all’angolo, ti dirà più di quello che vuole dirti. Ci vuole rispetto, sempre.

Qualcuno che ti ha deluso e qualcuno che invece ti ha sorpreso in positivo, al di là delle tue aspettative…?
Non mi ha deluso nessuno, siamo tutti portatori di una certa umanità. Puoi essere d’accordo o meno, ma in quel momento stai conoscendo una realtà, che è quella di chi ti sta di fronte. Mi hanno sorpreso in positivo i grandi. Per grandi intendo il poeta Mario Benedetti, che mi regalò anche un articolo per la mia rivista Latinoamerica, o Vinicius de Moraes, poeta e artista brasiliano sublime che mi invitò a casa sua perché ero afflitto per un amore non corrisposto, o addirittura Ungaretti, che declamava poesie insieme a Vinicius e Chico Buarque de Hollanda; tutti anziani poeti che avevano però l’anima di un bambino, ancora capaci di stupore.

La volta che ti sei più emotivamente coinvolto durante una trasmissione…
La puntata di Storie dedicata ai coniugi Alpi e alla loro figlia, Ilaria. Fu tremendo averli in trasmissione, vederli affrontare le immagini sulla morte della loro figlia. E anche l’intervista con il giudice Caponnetto per lo stesso programma. Mi colpì molto la loro dignità e il loro dolore.

Mi racconti, sia nella tua carriera che nella tua vita personale (presupponendo si possano scindere) i maggiori ostacoli che hai trovato, le maggiori ostilità?
Io ho dedicato la mia vita al lavoro, e questo mi è costato il mio primo matrimonio. Riguardo la mia professione, ho sempre voluto lavorare per la Rai, anche se ho ricevuto proposte dalla Fininvest. Ma lavorare in Rai da autonomo ha implicato molta fatica. Sono riuscito a strappare lavori solo da persone che mi stimavano. Il mio ultimo lavoro per l’Azienda risale al 1995, una serie di interviste monografiche ai protagonisti della storia per la collana Storie. Si interruppe e non si riprese più. Ho continuato a fare documentari, a lavorare per Rai Trade facendo i 10 dvd sulla vita di Maradona, ma dal 2008 più nulla. Mandano su Techetechete ogni volta le solite cose che ho fatto, quelle più facili, che strappano un sorriso. Ma non hanno mai voluto far rivedere alle nuove generazioni né Blitz né, soprattutto, Storie. E quello sì, che è un mondo da rileggere con attenzione.

Lo so che così ti tratto da mago o da profeta, ma tu hai esperienza e intelligenza, quindi anche una visione. Hai mai pensato a come si possano affrontare i grandi problemi di oggi, cioè ambiente, disuguaglianza sociale, strapotere economico nelle mani di pochi, migrazione, mancanza di opportunità?
Ma in realtà di questi argomenti l’America Latina, anzi il Forum di Porto Alegre, di cui ho fatto parte, parla dalla fine degli anni 90. Sono più di vent’anni che i popoli poveri del mondo si stanno muovendo e propongono soluzioni alternative, senza essere ascoltati. Ci vogliono far credere che non ci siano voci diverse, invece ci sono, eccome, peccato che i media mainstream non ce le riferiscano. Viviamo un vero e proprio paradosso: c’è una moltiplicazione immensa di mezzi di comunicazione, ma non si riesce più a capire chi dice cosa, a trovare la fonte, e soprattutto c’è bisogno di supposti “esperti” per districarsi nel mare di informazioni inutili.