Beh, prova a immaginare il sessantotto senza “Contessa”: mica ci riesci. “Se il vento fischiava ora fischia più forte, le idee di rivolta non sono mai morte…”. Comincia tutto lì. Da quella canzone. Dalla protesta degli operai dell’industria di Aldo, dalle manganellate della polizia al servizio del padrone, e il sangue sui muri, la falce, il martello. Qui a Roma il 68 arrivò con due anni di anticipo: nell’aprile del ‘66, quando durante uno scontro coi fascisti, davanti alla facoltà di Lettere, fu ucciso un ragazzino di 19 anni, socialista, che si chiamava Paolo Rossi. Gli studenti di sinistra occuparono l’Università, al funerale di Paolo accorsero decine di migliaia di persone, insieme a Nenni, a Parri, a Ingrao. Il rettore della Sapienza, che si chiamava Ugo Papi, fu cacciato via: grande vittoria degli studenti di sinistra. Iniziò la rivolta.

Paolo Pietrangeli era un po’ più grande di noi. Aveva 21 anni. Però suo padre, che era un regista famoso, ed era anche comunista, lo educava col pugno di ferro, e spesso gli impediva di uscir di casa e di unirsi ai compagni del Pci. Prigioniero, e pieno di rabbia, in quella primavera del 1966, Paolo prese la penna e scrisse “Contessa”. Nel giro di un paio d’anni “Contessa” diventò, per la generazione del baby boom, una canzone più famosa della “Bambola” di Patty Pravo e di “Mi ritorni in mente “ di Battisti e Mogol. La conosceva pure mia nonna, monarchica convinta. Ogni tanto la beccavo mentre la canticchiava sottovoce. Certo se lo rileggi oggi, il testo di “Contessa”, ti spaventi. Violento, minaccioso. Eppure chi ha conosciuto Paolo Pietrangeli sa che tutto era, Paolo, meno che un tipo violento. Di aggressivo aveva solo quella voce roca, bassa, fantastica, che era la sola voce, insieme a quella di Giovanna Marini, che potesse cantare le sue canzoni dandogli un senso.

È morto ieri, a 76 anni, ancora col suo faccione da ragazzo pacifico e ribelle. Dopo una vita intellettuale e professionale molto intensa. Cantautore, regista, scrittore, militante politico. Ancora alle ultime elezioni politiche decise di candidarsi, sapendo bene di avere possibilità zero di essere eletto. Lui concepiva le campagne elettorali come un’occasione per far politica, magari anche per far casino, non come una via per il Parlamento. Nel 2018 si candidò con Potere al Popolo. Gruppo di sinistra estrema che a me – ed evidentemente anche a lui – è sempre stato molto più simpatico degli altri gruppi di sinistra per due ragioni: la prima è tra i suoi fondatori c’è Giorgio Cremaschi – combattente indomito e sognante della classe operaia, che continua a combattere per la classe operaia come combatteva quando il movimento operaio esisteva ancora… – ; la seconda è che tra tutti i partiti e i partitini della sinistra Potere al Popolo è l’unico garantista e vuole svuotare le carceri e non riempirle.

Pietrangeli era figlio di un regista famoso, che morì in modo tragicissimo nell’estate del mitico 1968. Si chiamava Antonio, non aveva neanche 50 anni, aveva rapporti tesi col figlio. Aveva lavorato con registi grandissimi, come Visconti (Ossessione), Fellini, Rossellini e aveva diretto anche diversi film di successo. In quel luglio del 1968 stava girando le ultime scene del suo ultimo film (Quando, Come, Perché) sulla spiaggia dell’Arenauta, vicino a Gaeta. Si era immerso nel mare con alcuni attori, per illustrare una certa scena. Il mare si ingrossò all’improvviso e un’ondata lo lanciò contro gli scogli, uccidendolo. Credo che Paolo abbia sempre subìto l’influenza di questo padre, burbero e geniale. Credo che l’amasse molto, e che molto lo imitasse. In quello che poi diventò il suo lavoro vero, la regia. Che lo portò di nuovo a grandi successi televisivi, stavolta, con Maurizio Costanzo e con Maria de Filippi.

Di sicuro Paolo era un artista. Forse la parte migliore della sua arte la espresse proprio nelle canzoni che scrisse da ragazzo, e che magnificamente rappresentavano il furore, la rottura degli schemi, i torti e quindi tutte le ragioni del sessantotto. Ci sono tre canzoni, secondo me, che dicono tutto della sua furia visionaria. “Contessa” è quasi un manifesto. Un urlo feroce contro la borghesia rincoglionita, che si gode il miracolo economico, non lo capisce, è priva di cultura, di capacità di guida, di studio. È un richiamo alle armi, alla rottura. La crudezza della violenza che c’è, in questa canzone, è – secondo me – solo l’incitamento alla rottura, alla fine delle buone maniere, alla necessità di superare la critica blanda con la radicalità della contrapposizione. Il conflitto, il conflitto, il conflitto. Il sangue, i colpi di martello, la guerra, sono solo simboli di questa rottura. Il sessantotto, nella sua fase iniziale, fu esattamente questo: la capacità improvvisa, sovversiva, mostrata da una parte di quella generazione, di liberarsi delle tradizioni e della buona educazione e di rovesciarsi rabbiosa contro i padri, le madri, i professori, i preti, i politici, i banchieri, la placidità borghese.

E dopo “Contessa” Paolo scrisse una canzone ancora più truculenta, che si intitolava “Caro padrone, stasera di sparo”, e che quasi quasi, se letta un po’ sbrigativamente, poteva essere considerata come l’appello alla lotta armata. Invece era il contrario. Era un appello alla lotta, alla lotta e alla denuncia. Con le parole che allora servivano a rompere vent’anni di sottomissione della gioventù, di militarizzazione. “Caro Padrone” è del 69, e dello stesso anno è la più dolce, la più struggente e la meno conosciuta delle canzoni di Pietrangeli. “Il vestito di Rossini”. Credo che parli dei morti di Reggio Emilia (cinque militanti del Pci, tra i quali due ragazzi, falciati dai mitra della polizia, a Reggio, durante uno sciopero: il capo dei carabinieri, quando vide quello scempio, ritirò i suoi uomini, e fu punito; i capi della polizia, responsabili della carneficina, furono tutti processati e assolti). La canzone racconta di un operaio, di nome Rossini, che viene catturato e sottoposto a un interrogatorio durissimo dal commissario, che vuole che confessi, ma lui non confessa.

Quel giorno aveva indossato il vestito della festa, il più bello che aveva, l’unico, perché così fanno gli operai. E la mattina presto aveva salutato la sua fidanzata, Giovanna, dicendole che doveva andare a difendere la democrazia, che sarebbe tornato a sera. Il commissario gli disse che c’erano i testimoni del suo delitto. “L’hanno visto con un sasso in mano / che difendeva un ragazzo già morto,/ ma quel che conta è che a uno di loro / un sampietrino la testa sfasciò. / Ed ha scontato vent’anni in prigione / perché un gendarme s’è rotto la testa; / ormai Giovanna ha tre figli, è in pensione,/ chissà se ha visto il vestito da festa…”. L’ho sentita mille volte questa canzone, quando ero ragazzo. Secondo me Paolo era questo qui. Rossini. Difendeva un compagno già morto.

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Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.