L'addio all'ex calciatore e allenatore
Chi era veramente Sinisa Mihajlovic: faccia tosta, scorrettezza e punizioni a 160km all’ora
Ha vissuto la sua vita, breve, sempre di corsa. Spavaldo, anche un po’ violento, nel bene e nel male. Se volevi capire chi era Sinisa Mihajlovic dovevi guardare come batteva le punizioni quando giocava in serie A. Restava per qualche secondo vicino al pallone, rincorsa brevissima, e poi un colpo secco. Micidiale: scaricava sul suo piede sinistro tutta la forza che aveva nei polpacci e nei quadricipiti. Dinamite. I portieri raramente avevano il tempo per vedere la palla arrivare. Una volta degli esperti di fisica calcolarono che le sue punizioni facevano viaggiare la palla tra i 160 e i 180 chilometri all’ora. Nessuna Ferrari, nessuna McLaren può raggiungere queste velocità in così pochi secondi.
A volte le sue punizioni erano secche: traiettoria dritta sotto la traversa. A volte a giro, all’incrocio dei pali. Qualche volta riusciva anche a far rimbalzare la palla davanti al portiere. Qui in Italia Mihajlovic ha segnato 38 gol in una quindicina d’anni. Tantissimi per un difensore. Di questi 28 su punizione. Una media pazzesca. Le squadre avversarie dovevano studiare la partita in modo da evitare di commettere fallo troppo vicino all’area di rigore. Sennò Sinisa era implacabile. Una volta segnò 3 gol su punizione nella stessa partita. Cosa che in precedenza era riuscita solo a Signori, negli anni 80, e ad Amarildo, nei 60. La vita la viveva con la stessa determinazione. La concepiva come una serie di colpi secchi. Era aggressivo come in campo.
Era nato a Vukovar, in Croazia, nel 1969, ma era serbo e ha vissuto in Serbia fino a 23 anni, prima di trasferirsi in Italia, dove è morto ieri, di leucemia, a 53 anni. Era serbo serbo, Sinisa, e serbo scorretto, nel senso che non fece mai nulla per non urlare la sua serbitudine, in una Italia e in un’Europa che considerava la Serbia di Milosevic il male dei mali. Lui invece la difese sempre, con quella sua faccia da schiaffi che era la sua grandezza. Difese anche Radzik, il generale di Srebrenica, difese l’assedio di tre mesi con il quale i serbi rasero al suolo la sua città natale.
Potevi dirgli tutto a Mihajlovic, ma nonché era un ipocrita. Lui lo sapeva, se ne vantava. La pagava. Beccò tante squalifiche, per razzismo, per violenza in campo. Non era uno stinco di santo, inutile negarlo, però era vero, solido, lealissimo.
Nel calcio giocato ebbe molta fortuna. Vinse la Coppa dei Campioni, l’unica vinta da una squadra serba, nel 1991, con la Stella Rossa. Poi venne da noi, nella Roma, poi nella Sampdoria, nella Lazio (dove restò otto anni) e alla fine nell’Inter. Da allenatore fu meno fortunato. Nel Milan stava andando bene, ma Berlusconi lo licenziò. Nel Bologna stava andando benissimo, ma fu colpito dalla leucemia, tre anni fa, si ritirò in ospedale, poi tornò ad allenare, combatté con tutte le sue forze, pianse, pianse tante volte perché aveva cinque figli e proprio non gli andava di morire. Chissà adesso se qualche ragazzo riuscirà a eguagliare i suoi record. A far viaggiare la palla, e la vita, a quasi 200 all’ora…
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