Filosofia di un influencer
Chiara Ferragni, come farsi storia del proprio tempo
Qual è il compito della filosofia? Non tanto e solo occuparsi dell’Origine e delle Cose Ultime – come mostrano di fare i nostri pensatori “abissali” – quanto hegelianamente interpretare ciò che è, la condizione storica del nostro presente, lo spirito del tempo. Bene ha fatto Lucrezia Ercoli a collaudare la teoria filosofica nella vita quotidiana – Chiara Ferragni. Filosofia di una influencer (Il Melangolo) – , aiutandoci a capire una significativa declinazione di quello spirito del tempo: Chiara Ferragni, influencer con 20 milioni di follower su Instagram, prima solo fashion influencer poi capace di espandersi in modo inarrestabile e oggi arrivata al 6°posto nella classifica mondiale dei follower strapagati. Inoltre moglie di Fedez, rapper di successo, comunicatore sfrontato e anch’egli popolarissimo.
Insieme hanno raccolto in poco tempo 3 milioni di euro per il San Raffaele di Milano configurando così un uso virtuoso, per quanto stigmatizzato da legioni di haters, dello stesso star system. Così come farsi fotografare davanti alla Venere botticelliana da parte di lei ha incrementato del 30% gli ingressi agli Uffizi (vorrei proporle di fare la testimonial della lettura). Lucrezia Ercoli ha scritto un libro utilissimo e interamente dentro la “vocazione” della filosofia, una concentrata mitobiografia della influencer più potente del mondo, memore delle Mythologies di Barthes (e poi di Simmel, Benjamin, Girard…) e impegnata a a difenderla dai pensosi moralisti che tengono il broncio al proprio tempo: la vita, le opere, la famiglia, lo stile, la rivoluzione nella comunicazione, il docufilm, e alcune interessanti, forse inevitabili contraddizioni. Ma proviamo a ripercorrere la attentissima, simpatetica disamina dell’autrice, ripassando così gli argomenti che affronta in queste pagine.
Quali i fattori del successo della Ferragni? Anzitutto: ha assecondato (ridefinendolo) lo storytelling revival del nostro tempo – in ogni post racconta una storia – , quello per cui un biologo ti “racconta” la sua teoria e un politico “ti racconta” il suo programma. Tutto è narrazione, e in quanto tale salvifico. Uno non accede alla Storia ma si fa la sua storia. La Ferragni racconta la propria vita nei social, selezionandola accuratamente (e la vita del figlio fin dalla gravidanza!). In pubblicità storytelling e marketing coincidono, la storia conta più del prodotto (una cosa in verità anticipata da “Carosello” negli anni 60). Ha esemplificato il teorema di Barthes – il corpo non precede il vestito, ma è reso significante dal vestito – portandolo all’estremo. La Ferragni coincide con il proprio brand. Oggi l’esterno prevale sull’interno: dato che allo stadio indosso anfibi, jeans con risvolto e ho il cranio rasato allora assumo una ideologia neonazista.
Usa un linguaggio semplice, quasi banale, alieno dalle ricercatezze di certe fashion blogger. In ciò si distingue dallo snobismo di massa e non intende dare una immagine alta di sé. Si pensi alla pseudoricercatezza intrisa di vernacolo che trionfa nel trash odierno: in una trasmissione radiofonica calcistica ho sentito un improbabile “giornalista” dire a proposito dell’infortunio di un giocatore della propria squadra: “Ahò, famo tutti i gesti apotropaici del caso…”. La Ferragni non è troppo bella, troppo talentuosa, troppo brillante. È una donna media: ognuno vi si può identificare e la può imitare (come il Mike Bongiorno della fenomenologia di Eco). È il “mito nell’epoca della sua riproducibilità digitale”. Oscilla tra arte contemporanea e pop, tra Marina Abramovic e “Grande fratello”: la vita come performance costantemente valutabile (la sua idea più geniale: non vendere il matrimonio con Fedez a una testata televisiva ma farlo riprendere da centinaia migliaia di fan, per avere uno sterminato puzzle di video amatoriali, di storie Instagram (“i mass media siamo noi”).
Ha celebrato la possibilità di ricombinare abiti di marca in uno stile personale, mescolando creativamente brand low cost e marchi di lusso: il concetto pasoliniano di omologazione andrebbe modificato almeno in “omologazione differenziata”. Possiede una retorica convincente dell’autenticità. La sua è una naturalezza innaturale ma credibile (lontana tra l’altro dalla retorica corrente della trasgressione e dell’eccesso). Ora: un sentimento che esibisce se stesso in TV è meno autentico? Questione indecibile. Per Vonnegut dato che ognuno finge di essere quello che è allora deve stare bene attento a cosa vuole fingere di essere. La Ferragni mi sembra ben attenta: ritaglia se stessa, è vero, ma secondo un proprio ideale definito. Sentiamo non tanto che è sincera quanto che segue sinceramente un modello di sé (per dire: un politico in genere segue solo il modello di sé che gli procura più consenso), e ciò fa simpatia.
Adesso però annoto velocemente solo qualche considerazione più critica, e forse veteroumanistica. Va bene, siamo tutti affascinati dalla merce, anzi dalle “ipermerci” (come sono state chiamate), dal loro valore simbolico, dagli universi seduttivi che dischiudono, ma possibile che il nostro immaginario sia occupato solo e interamente da esse? Se la pubblicità è il sogno che si impone all’industria (Benjamin) però ci fa sognare tutti le stesse cose. Davvero non ci tenta essere a volte un po’ anacronistici? Non ci viene mai voglia di sottrarci, di vivere nella penombra, di dire alcuni no? Nella cultura americana, oggi egemone, c’è anche Thoreau che visse in un bosco (un racconto altrettanto fiabesco!).
Fedez rivendica il diritto di ostentare la ricchezza, onestamente e faticosamente guadagnata. D’accordo, però se questa ricchezza è eccessiva – ovvero secondo un filosofo tedesco oltre il triplo del reddito medio (un tetto qui abbondantemente superato) – allora minaccia l’autostima di chi non ce l’ha e rischia di imporsi agli altri anche sul piano delle idee. Siamo tutti influencer ma alcuni sono più influencer di altri!
Infine, una crepa interessante: Chiara Ferragni aspira al cyborg, al corpo-macchina (asettico, perfettamente efficiente), eppure il suo corpo è tatuato (sanguina quando si mette un piercing in diretta), difettoso, perfino sgraziato (i famosi “piedi brutti”).
E se fosse proprio questa la sua bellezza, fatalmente imperfetta e “troppo umana”? Risaliamo qui alla contraddizione originaria. Da una parte intende espellere dal suo mondo scintillante la caducità, il limite, ma dall’altra sa che non può farlo (non è un avatar), e infatti teme giustamente di invecchiare (“Che ne sarà di me tra 5 anni?”). Le ombre, per troppo tempo esorcizzate, potrebbero vendicarsi. Il suo corpo vuole essere un simulacro, senza odori e senza organi: “simulacri” erano le immagini dei defunti custodite in casa. Chiara Ferragni fluttua nell’etere come Nosferatu: da sempre defunta e perciò immortale. Ma è, paradossalmente, un Nosferatu riproducibile, che tutti possono imitare.
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