L'intervista
Claudio Signorile: “Il codice etico? È deviante, e i casi vengono esasperati. Al Sud c’è la cultura della piazza, ma non vuol dire malavita”
Le indagini sul voto di scambio a Torino e a Bari scuotono il centrosinistra e ripropongono l’annosa questione del rapporto tra politica e giustizia. Ne abbiamo parlato con Claudio Signorile, esponente storico e parlamentare del Psi nel corso della prima repubblica, nonché ministro nei governi Craxi e Spadolini.
Un codice etico per i candidati del Pd. È la proposta di Elly Schlein per reagire ai casi di Bari e Torino. Ma il codice etico del Pd esiste già dal 2008 e non pare sia stato efficace.
«Più che inutile, il codice etico è deviante. Lascia intendere che una crisi di moralità si possa recuperare dall’esterno. Il codice è solo un fatto burocratico senza conseguenze pratiche. Io ho sempre interpretato la politica nel senso indicato da Machiavelli: è un valore in sé».
Il codice etico esprime anche una debolezza dei partiti odierni?
«Sì, ma non è una debolezza etica. È imbarazzante la quantità di appuntamenti bucati dalla politica attuale per mancanza di visione sistemica. Da questa crisi non si esce con un codice etico né con la strumentalizzazione esasperata delle vicende giudiziarie».
Esiste un problema di regolamentazione dei partiti politici, come previsto dalla Costituzione, anche al fine di rafforzarli nel rapporto con la giustizia?
«Se ne dibatte senza soluzione da decenni. Fino alla fine della Guerra Fredda il sistema dei partiti era forte e autorevole e le relazioni internazionali molto ben definite fissavano il quadro delle compatibilità. I partiti operavano come soggetti del sistema sulla base di regole non scritte ed erano il motore delle istituzioni. Era un mondo ordinato. La nostra generazione non ha colto il momento per dare una forma stabile e compiuta a tutto ciò. Così oggi i nostri partiti non sono più ideologici, né programmatici, né sistemici. Ma vivono alla giornata e sono criminogeni».
Con i casi di Bari e Torino ritorna il pericolo che siano i magistrati a fare la “polizia morale” del sistema?
«Non è un pericolo, ma una realtà. Ma il magistrato deve fare il suo dovere. La gestione del potere non è ignobile, ma se si trasforma in azione criminogena il magistrato svolge una funzione di supplenza. Però la responsabilità è dei partiti. Nel biennio di Tangentopoli abbiamo assistito al collasso dei partiti e alla trasformazione del sistema: in quella crisi il magistrato ha fatto la sua parte. Il caso Palamara ci racconta che da un certo momento cominciano a crearsi intrecci tra la politica politicante e la giustizia penale, civile e amministrativa. La struttura delle istituzioni ha bisogno della politica altrimenti entra in crisi. E il vuoto viene coperto dalla giustizia».
Nell’intervista al Riformista Cuffaro si è vantato di controllare un ampio pacchetto di voti scatenando sospetti e accuse di mafiosità da parte dei suoi avversari politici. Ma gestire il consenso non è una parte integrante del lavoro politico? E lo stesso Cuffaro, dopo aver scontato la sua pena, non dovrebbe considerarsi riabilitato?
«Assolutamente sì. Cuffaro è riabilitato proprio come auspica la nostra Costituzione. Gestire pacchetti di voti non mi scandalizza: la raccolta e la rappresentanza di interessi diffusi sul territorio sono parte integrante della politica da sempre. Il voto politico è spesso un voto in cambio di un tornaconto. Ho bisogno di essere aiutato e mi rivolgo al mio parlamentare: è così in tutto il mondo. Certo, quando diventa un voto di scambio criminale è giusto che suoni l’allarme. Nel caso di Cuffaro, i sospetti riguardano la sua storia. Però ha pagato il prezzo dei suoi errori e oggi ha il diritto di raccogliere i voti. Ma chi fa attività politica deve rendere conto del suo progetto».
Sembra che i sospetti crescano quando il consenso si raccoglie al Sud, dove l’elemento relazionale della politica è forte.
«Sono stato eletto per sei legislature: senza risorse economiche, ma grazie al rapporto con la gente. L’antropologia del Sud è fondata sulla relazione. È la cultura della piazza e del vicolo. Una cultura della condivisione e della solidarietà che si riproduce anche nelle comunità di calabresi, siciliani e pugliesi che vivono a Torino, Milano e Roma. Non necessariamente si tratta di un fenomeno malavitoso.
La questione morale e la subalternità alla magistratura sembrano ormai la cifra della sinistra italiana. È un’eredità della questione morale brandita da Berlinguer negli anni ’80?
«Il progetto del “compromesso storico”, con l’idea dell’unità nazionale per superare le divisioni del 1948, sembrava portare verso l’alternanza democratica. Dopo la morte di Moro, però, Berlinguer non ha più una politica e si rifugia nella “diversità morale”. Una pura e semplice identità alternativa che diventa l’alibi per la mancanza di un progetto politico. Un’impotenza che contribuisce al collasso del sistema politico. L’affermazione della magistratura è una conseguenza di questa fase».
Oggi il M5S e il Pd sembrano eredi di quel mito fallace della diversità e continuano a competere sul terreno del moralismo.
«Il M5S è sicuramente un erede del moralismo berlingueriano: gridare “onestà” è facile, ma così non si vive a lungo. Conte è furbo, ma non ha strumenti culturali e programmatici. L’implosione del Pd mi spaventa: né Schlein, né i suoi predecessori sembrano all’altezza e non basta la gestione delle amministrazioni locali. Il Pd dovrebbe imparare dal tentativo della Meloni di costruire un partito con vocazione maggioritaria».
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