Pubblichiamo, in collaborazione con Nessuno tocchi Caino, la decima di un ciclo di storie sulle vittime delle misure interdittive e di prevenzione antimafia.

Viviamo in uno Stato di diritto o in uno Stato di potere prefettizio? La domanda non è per niente retorica. La vicenda giudiziaria che mi ha colpito non è diversa da quelle meritoriamente raccontate da Nessuno tocchi Caino sulle pagine di questo giornale. È una storia di barbarie, di violenza alla democrazia e alle persone: una storia di scioglimento di comuni per mafia senza l’ombra della mafia. Ho deciso di raccontare ciò che mi è capitato non solo per difendere l’onorabilità della mia famiglia e della mia comunità; lo faccio nella speranza che la politica possa rendersi conto dei limiti di una legge che, con il sospetto, si abbatte come una mannaia sui piccoli comuni favorendo certi interessi politici a discapito di altri.

Nel mese di maggio del 2012 fui eletto Sindaco di Giardinello, un piccolo comune di 2.400 abitanti della Provincia di Palermo, dopo avervi ricoperto la carica di consigliere comunale. La mia squadra era composta per lo più da giovani alla prima esperienza amministrativa. Il difetto di esperienza era colmato dall’entusiasmo, dalla vitalità, dallo spirito di abnegazione, propri degli anni migliori. Dopo otto mesi dal mio insediamento, furono rese note le conclusioni di un’importante inchiesta antimafia condotta dai carabinieri, dal nome tutto evocativo: “Grande mandamento”. Operazione che portò all’arresto di alcuni indiziati mafiosi appartenenti al nostro comprensorio. Il calvario era alle porte. Da alcune intercettazioni vennero estrapolate e decontestualizzate alcune frasi riguardanti la mia campagna elettorale. Ne fu ricamato un quadro così inconsistente da non poter essere definito neppure indiziario; una sequela di apodittiche supposizioni comunque sufficiente per criminalizzare la classe politica locale e inviare al Comune i commissari prefettizi per un accesso ispettivo.

Per circa tre mesi vennero esaminati gli atti del nostro breve mandato. Ero certo della mia integrità morale e di quella dei miei collaboratori e, perciò, dissi ai commissari che, qualora avessero trovato atti che ricollegavano l’azione della mia amministrazione alla mafia, mi sarei subito costituito. Dissi pure che in caso contrario nessuno, neppure il Prefetto o il Ministro, avrebbe potuto permettersi di infangare la mia persona, la mia famiglia e la mia comunità. La fiducia nelle Istituzioni non era ancora vacillata e pertanto chiesi un’audizione all’allora Ministro della Giustizia, Angelino Alfano, e alla Commissione Parlamentare Antimafia. Alle mie richieste non vi fu alcun riscontro. Continuava senza sosta l’ispezione della Commissione Prefettizia ma proseguiva anche il lavoro alacre della mia amministrazione che, nonostante fosse stata screditata, non abbandonava la speranza di giustizia. Speranza di giustizia tradita quando, circa tre mesi dopo, come un fulmine a ciel sereno, arrivò il provvedimento che disponeva lo scioglimento del Consiglio Comunale.

Fui assalito da un senso profondo di rassegnazione. È difficile spiegare cosa si prova. Ti senti tradito dalle Istituzioni alle quali hai dedicato la tua vita e per le quali hai messo da parte la tua stessa famiglia. Ti senti impotente di fronte a un grave abuso che lede la tua dignità.
L’ingiustizia subita generò in me e nei miei collaboratori un senso di rivalsa che, insieme alla forza di chi sa di essere nel giusto, ci spinse a intraprendere azioni volte a riaffermare la verità. Ottenute con non poche difficoltà le motivazioni dello scioglimento, piene di omissis, iniziammo una vera e propria battaglia civica per raccontare, attraverso gli organi dell’informazione locale, la nostra versione dei fatti. All’attività di corretta informazione dell’opinione pubblica affiancammo, ovviamente, anche l’azione legale, con il ricorso al TAR promosso dall’avvocato Immordino. Dopo circa otto mesi arrivò la tanto attesa sentenza del TAR che ribaltò quell’ingiusto scioglimento. Finalmente dei giudici amministrativi avevano riconosciuto ciò che era evidente fin dal principio, cioè che la mia amministrazione non aveva adottato alcun atto che si potesse ricondurre alla malavita. La notizia fece scalpore: Giardinello era il primo Comune siciliano a essere riabilitato.

Con rinnovato vigore, rilanciammo la nostra azione di governo, riuscendo a ottenere in poco tempo risultati eccezionali, nonostante la difficile situazione economica purtroppo condivisa con molti comuni del Sud. Mi piace ricordare con orgoglio che il nostro è stato il primo Comune in Sicilia a raggiungere la massima quota di raccolta differenziata (circa l’80%). Questo risultato ci permise di abbassare la quota sulla tassa dei rifiuti, diede lustro alla nostra cittadinanza e fu il motivo di tanti attestati di stima che ci sono stati tributati a livello nazionale e regionale. Ottenemmo pure dei finanziamenti per la riqualificazione del Parco Urbano con annesso gazebo, senza alcun onere per il Comune. Abbiamo sempre garantito la pulizia e il rifacimento del manto stradale.

Tutto sembrava andare per il meglio. Sembrava, appunto. A seguito del ricorso del ministro degli Interni, il Consiglio di Stato sciolse definitivamente il nostro Comune. Una situazione kafkiana: lo Stato che ricorre contro se stesso, lo Stato che rigetta nel baratro un’intera comunità. Per corroborare un’accusa del tutto infondata, era necessario dichiarare la mia incandidabilità. E affinché ciò si verificasse, a perorare la causa della perdita dei miei diritti politici venne colui che aveva eseguito lo scioglimento per mafia del nostro Comune: il sig. vice Prefetto. Incredibile ma vero! Le vicissitudini che ho sin qui riassunto, non senza dolore, hanno determinato una violazione dello Stato di Diritto e una macchia indelebile nella storia del nostro Comune. Non è più tollerabile la superficialità nelle investigazioni e la palese disparità tra accusato e accusatore. Con la scusa di riaffermare la legalità, sono stati causati danni incalcolabili al nostro territorio.

Facciamo i conti con un sistema giudiziario ammalorato, ove operano soggetti che, sotto la toga o la divisa, perseguono interessi privati, secondo una logica predatoria e parassitaria. Come può in un ordinamento democratico il Prefetto, espressione del potere politico, cancellare il voto liberamente espresso dai cittadini senza che nessun consigliere di maggioranza o di opposizione abbia mai ricevuto un avviso di garanzia? La lotta alla mafia non è solo un pretesto per stravolgere i risultati elettorali, confiscare e interdire aziende senza prove. È la via della dannazione eterna per molti innocenti che, da un giorno all’altro, vengono distrutti sul piano patrimoniale, professionale e umano.

Parliamo di una scorciatoia contorta attraverso la quale si applicano pene atroci senza reati; vere e proprie campagne di persecuzione alimentate da quella folle cultura del sospetto che qualche secolo fa portava al rogo donne innocenti accusate di stregoneria e che oggi conduce al martirio di tanti uomini onesti presi per mafiosi. La lotta alla mafia è un obiettivo sacrosanto ma il modo peggiore per perseguirlo è cercare la mafia laddove non c’è. Per dirla con Voltaire, «le streghe hanno smesso di esistere quando noi abbiamo smesso di bruciarle».