La fotografia di Di Maio a pranzo con Giorgetti, paparazzata la settimana scorsa, forse rappresenta qualcosa di più di uno scambio di idee occasionale tra ministri dello stesso governo. Sembra essere il barlume di una nuova intesa centrista, il seme iniziale e indiziario di un progetto cui si sta segretamente lavorando: una Cdu italiana. Una nuova balena bianca più ispirata alla Merkel che a Andreotti. Un grande rassemblement conservatore da contrapporre al centrosinistra a guida dem. Su questo progetto stanno convergendo i giorgettiani da una parte e i grillini dall’altra, convinti questi ultimi da Di Maio che l’unica speranza di rivedere le stelle (un nuovo seggio nel prossimo Parlamento) risieda nell’abbandono dei vecchi lidi.

Quei bastioni difesi dal solo Giuseppe Conte, che d’altronde in queste ore sta rapidamente perdendo peso. Se Conte conti davvero è la domanda, quasi un calembour, che oggi tutti si pongono. Certamente conta sempre meno, è un generale senza più truppe. I gruppi parlamentari gli hanno riservato uno sberleffo sonante: il suo candidato capogruppo per Palazzo Madama, Ettore Licheri, è stato affondato dalla candidatura della sfidante, Mariolina Castellone, voluta da Di Maio il quale ha rilanciato, presentandola: «è una persona che sicuramente vi stupirà perché è veramente un alto profilo». Di Maio sta battendo uno a uno tutti gli studi televisivi per presentare la sua autobiografia, che in quasi trecento pagine ne riafferma la centralità per gli equilibri del Movimento. Ha messo insieme, sommando l’audience dei dieci talk show di cui è stato protagonista negli ultimi dieci giorni, oltre trenta milioni di spettatori. Giornate più complicate per conquistare una platea, pur minore, per Giuseppe Conte. Che ci prova, per carità. E ha sempre Rocco Casalino dietro, anche se lo spin doctor ha fiutato l’aria che tira e si tiene sottovento.

Conte va a Porta a Porta e si fa seguire da 878.000 spettatori, il 2 novembre. Ma quando, due giorni dopo, il protagonista dello studio di Bruno Vespa è stato Luigi Di Maio salgono a un milione e cento mila i televisori collegati. Il duello al vertice del M5S è d’altronde esploso nella sua plasticità quando il titolare della Farnesina, per trattare sulle nomine, ha convocato l’Ad Rai, Carlo Fuortes, senza la presenza di Conte. Chi tratta, chi ha in mano il boccino che conta tra i grillini è dunque, anche formalmente, il ministro degli Esteri e non l’ex inquilino di Palazzo Chigi. D’altronde sarebbe curioso sapere dove si può incontrare, l’ex premier. Dove si riunisce. A studio non può tornare: è lì che si sarebbe consumato lo scandalo sul quale la Procura di Roma sta indagando il suo partner, Di Donna. Dall’Università di Firenze è in aspettativa. E la sede romana del Movimento tarda a essere individuata. La vacatio sedis sembra la metafora di Conte, un’anima in pena nella Roma del potere. Neanche i suoi uomini sono baciati dalla fortuna, tutt’altro. Da quando Conte ha presentato i suoi cinque vice dalla Annunziata, chiedendo che fossero i loro volti quelli più invitati in Rai, dei cinque non si è sentito più parlare. Di Arcuri invece sappiamo: le inchieste che riguardano le forniture sanitarie vedono le Procure procedere per peculato.

Da ieri è indagato anche il direttore dell’Agenzia delle Entrate Marcello Minenna: abuso d’ufficio, fascicolo aperto dalla procura di Roma. Azione penale sollecitata dall’esposto firmato dall’ex capo della direzione Giochi Roberto Fanelli, relativo a presunti sprechi di denaro; si parla di lavori affidati direttamente, senza gare d’appalto, a professionisti che avrebbero anche avuto a che fare con la ristrutturazione della casa di Minenna. Se Conte perde quota, l’asse che lega il M5S al Pd si fa debole. E si rafforza quella sensibilità più conservatrice e reazionaria che Luigi Di Maio ha sempre faticato a tenere nascosta. Come fatica ormai a tenersi a freno, in parallelo, Giorgetti. La tregua armata non convince. La fiducia votata all’unanimità per Salvini, al consiglio federale tenuto a Roma, ha scongiurato la conta. L’incontro – concluso dopo le 23 di giovedì sera – non è stato indolore. Il Ministro dello Sviluppo Economico punta al Ppe come punto cardinale intorno al quale muoversi, ed è una rotta sulla quale si incolonnano in tanti. Dopo di lui è stato il turno dei governatori leghisti, i quali sono stati netti nel chiedere al segretario di fermare i “liberi pensatori” del green pass e di togliere questo tema dall’ambito del dibattito politico per restituirlo a quello della prevenzione della pandemia, centrale per chi come loro è in prima linea. Qualcuno ha quindi stigmatizzato anche altre uscite mediatiche, chiedendo a Salvini sobrietà e più autorevolezza. Poi, applausi per tutti, ma con le mani che prudono. Lo scontro è solo rimandato all’11 e 12 dicembre, quando la Lega affronterà una Convention delle idee che apre a decisioni strategiche di lungo corso.

Quelle che Giorgetti ha scolpito nella pietra, e dalle quali non tornerà indietro: «Se ci muoviamo dentro il recinto di Draghi andiamo lontano – ha sostenuto -. Se usciamo da questo “cordone”, troviamo grosse difficoltà sia a livello di sistema Paese, sia in Europa, e sul piano internazionale, in generale». Il partito di Draghi prende dunque le mosse, come dall’altra parte dello schieramento fa con Di Maio. Probabile che Giorgetti, che arruola dalla sua i governatori del Nord, stia ragionando un po’ più in là del perimetro della Lega. Confortato dai dati che il sondaggista Antonio Noto ci dettaglia: «La Lega di Salvini dopo aver tenuto toni morbidi con i no Green Pass, incontrato il brasiliano Bolsonaro e voltato le spalle al Ppe ha perso un punto percentuale. In un giorno. Mostrando che gli elettori di centrodestra sono più alla ricerca di un nuovo centro che di una vecchia destra». I tempi di questo progetto sembrano procedere in due fasi. La prima di lento posizionamento, fino all’elezione del Capo dello Stato, primo vero banco di prova della “Cdu italiana”. Poi una fase di accelerazione, funzionale ad arrivare alle elezioni del ‘23 con un rassemblement capace di tenere insieme i populisti-non più populisti di Di Maio e i sovranisti liberali di Giorgetti.

Sondaggisti e spin doctor indicano praterie, per lo schieramento che per Alessandro Campi, politologo e docente all’università di Perugia, è destinato a cambiare il panorama politico. «Non credo che la Lega abbia interesse in questo momento a spaccarsi – spiega Campi al Riformista –. Ha necessità invece di riconsiderare e ripensare la sua linea politica alla luce anche di alcuni segnali che sono abbastanza evidenti, come ad esempio l’esito delle amministrative non particolarmente brillante». Interviene Noto: «A Roma la Lega è passata dal 24 al 6%, ed è così in tutto il mezzogiorno; il progetto di una Lega nazionale, indirizzo portante della segreteria di Salvini, è già naufragato». Prosegue Campi: «La mia idea è che la Lega ha davanti a sé l’opportunità di provare a creare quel grande partito conservatore di massa che in Italia non c’è mai stato. Il problema non è scivolare su posizioni moderate, diventare la nuova Forza Italia. La Lega ha il suo imprinting che gli consentirebbe un’operazione del genere». Sullo sfondo le grandi manovre per il Colle: distante da Berlusconi, questo schieramento inizierà a contarsi proprio dalla terza chiama per il nuovo Presidente.

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.