Cosa ci insegnano le elezioni amministrative che si sono concluse lunedì? Può essere utile ripercorrere brevemente i dati dei due turni di voto, specialmente per trarne le (eventuali) implicazioni a livello della politica nazionale e dei suoi equilibri. Riferendoci anzitutto alle astensioni, che hanno visto, al secondo turno, un calo rilevante rispetto ai livelli, già molto bassi, rilevati nel primo weekend di voto. Si tratta, certo, di un segnale politico importante. Ma non tanto per la disaffezione dei cittadini dalla politica, alla quale si è fatto sovente riferimento nei commenti di questi giorni. Quest’ultima certamente esiste e si è accentuata con l’avvento del Governo Draghi che ha messo i partiti (tutti i partiti) in secondo piano e che è stato varato anche a causa dell’incapacità dei partiti di trovare un accordo per governare il Paese in un momento di crisi legato (anche) alla pandemia.

Ma il distacco degli elettori dalla politica non è l’unica causa (e nemmeno la principale) delle tante astensioni di questa tornata elettorale. Che, come l’analisi dei flussi elettorali ha mostrato già in occasione del primo turno, non sono state motivate da una generica disaffezione da parte degli elettori, quanto, soprattutto, dal rifiuto verso specifici candidati e talvolta verso certi partiti. Le diserzioni dal voto non si sono infatti distribuite uniformemente su tutto l’elettorato, ma hanno colpito in particolare due settori dell’offerta politica: il centrodestra e il M5S. Il primo a causa dell’insufficienza e/o inadeguatezza (così l’hanno definita gli elettori nelle interviste condotte in questo periodo da Eumetra) dei candidati presentati (ma, come diremo tra breve, non solo per questo motivo, bensì anche per cause più strutturali connesse al messaggio politico proposto). I votanti che avevano optato per il centrodestra (e, in particolare, per la Lega) alle ultime elezioni europee non hanno voluto dare la loro preferenza a questi ultimi e, non volendo scegliere un partito o un candidato degli avversari, hanno in molti casi preferito astenersi.

Si è trattato dunque più di una scelta politica ben precisa che di una generica disaffezione. Ciò si è ripetuto al secondo turno, con l’aggiunta di quegli elettori che, avendo inizialmente preferito un candidato che non è riuscito ad entrare al ballottaggio, si sono rifiutati di esprimere una “seconda scelta” (il “meno peggio” tra i contendenti rimasti in lizza), decidendo di rinunciare ad esprimere una preferenza. Questo, come si sa, è un fenomeno assai comune, presente in tutti i ballottaggi, anche all’estero, e assolutamente fisiologico. La loro scelta di astenersi è, nella maggior parte dei casi, limitata quindi a questa specifica consultazione e non ha a che fare col disinteresse dalla politica. Alle prossime elezioni questi cittadini verosimilmente torneranno a votare.

C’è poi il caso a parte dei M5S. Una porzione significativa di quanti hanno votato in passato per i grillini, sono – come tutti i sondaggi, anche quelli effettuati da Eumetra, hanno mostrato – insoddisfatti per le scelte più o meno recenti del Movimento (in particolare per la sua “parlamentarizzazione”): in parte si sono rivolti al Pd (E anche, in certi casi, a Fratelli d’Italia), ma molti, invece, non trovando alternative che sembrassero loro convincenti, si sono diretti verso l’astensione (e possono essere nuovamente mobilitati, specialmente da parole d’ordine di tipo populista) sia in occasione del primo turno sia, come dimostrano i primi studi condotti al riguardo dall’Istituto Cattaneo ad esempio a Torino, in misura ancora più accentuata tra il primo e il secondo turno.

Alla luce di queste caratteristiche delle astensioni, si può dunque affermare che l’indubitabile vittoria del centrosinistra (e il significativo “cappotto” manifestatosi nelle città più importanti, che, ci sia permesso di sottolinearlo, avevamo previsto già più di un mese fa) non è forse ascrivibile tanto (o non solo) ai meriti dei vincitori, quanto ai demeriti della parte avversa, ai suoi conflitti interni (che, in molti casi hanno fatto troppo rinviare la scelta dei candidati da presentare) e, in generale, ai limiti e alla contraddittorietà dei messaggi proposti. Il risultato che è complessivamente emerso da queste consultazioni è quindi in buona misura legato al tipo di elezioni e, in particolare, al sistema elettorale previsto per queste ultime. Che, come si sa, è profondamente diverso da quello (attualmente) previsto per le elezioni politiche. Per questo, “proiettare” questi risultati sulle consultazioni per il Parlamento nazionale è quantomeno azzardato. È vero tuttavia che, come ha sottolineato Roberto D’Alimonte sul Sole 24 ore, si è verificata una sorta di ritorno al bipolarismo. Si tratta tuttavia, come argomenteremo tra breve, di un bipolarismo che potremmo definire estremamente “fragile”, claudicante e malfermo. Che è dipeso non tanto da una trasformazione del sistema politico nel suo insieme, quanto dall’esaurirsi “naturale” del terzo polo. Che era costituito dal M5S e che politicamente non esiste più. Anche se, è utile ripeterlo, il tipo di elezione – e il sistema elettorale previsto – spinge “naturalmente” al dualismo (che non è necessariamente destra/sinistra; in Francia alle prossime elezioni presidenziali il ballottaggio sarà fra centro e destra).

Ma veniamo ai risultati elettorali. Al di là del dato “psicologico” e dalle significative implicazioni del “cappotto” sul clima politico è importante esaminare ancora i voti di lista – quelli emersi al primo turno – per cercare di individuare le tendenze – e la forza – dei diversi partiti attualmente in lizza. I dati mostrano che ci sono due vincitori, nel senso che ci sono due partiti che o hanno aumentato il numero dei voti o hanno mantenuto la posizione passata. Ma sono due vincitori che solo con grande difficoltà possono prevalere a livello nazionale, con il sistema elettorale oggi adottato per le politiche. Da un verso, il PD, con il 19%, è in realtà il primo di una serie di partiti medi che possono solo impegnarsi a fare coalizioni per provare a vincere e cercare di governare il paese. Dall’altro, FdI da sola può raccogliere i voti della destra, ma appare sin qui “confinato” all’opposizione, con scarsissime possibilità di giungere al governo del Paese.

Certo, i perdenti sono il M5S e la Lega. Il primo, andando al governo, si è sgonfiato e riducendo il numero dei parlamentari si è in qualche modo avvicinato al suicidio. Esso sembra oggi essere un insieme fatto di due poli: uno, forse più piccolo, di vecchi estremisti del Vaffa, un altro di “contiani”, elettori che avevano apprezzato l’ex presidente del Consiglio e che sembrano acconciarsi al suo moderatismo quasi centrista (tinto peraltro di un po’ di demagogia meridionalista, si veda la sua posizione sul reddito di cittadinanza), ma anche eletti che hanno scoperto il fascino dei Palazzi romani e che faranno tutto quello che possono (piccola pattuglia ben guidata da Di Maio) per restarvi. In sostanza uno strano combinato disposto che invece di amalgamarsi potrebbe diventare una maionese impazzita, che non lega. Quanto alla Lega con la L maiuscola, le cose sono altrettanto complicate.

Ha perso elettori a detta di tutti gli analisti a favore dei FdI e verso l’astensione. E non è difficile capire perché. La Lega di lotta e di governo non piace all’ala estremista del partito che si fida di più del partito inequivocabilmente di destra rappresentato da Meloni. L’ala bavarese non capisce e non ama la retorica ribellista di Salvini e poiché non vuole votare né a sinistra e nemmeno per Berlusconi si astiene. Se guardiamo poi i dati relativi al primo turno e alle sfide al ballottaggio nei comuni oltre 15.000 abitanti solo meno della metà (26) sono sfide centrodestra-centrosinistra, 35 sono di altro tipo. E questo dipende certamente dalla natura locale delle elezioni, ma anche, per altri versi, dalla circostanza che vede il M5S incerto se allearsi o meno con il PD – solo in 29 casi su 118 dei medesimi comuni il partito di Conte era alleato con il partito di Letta – cioè perdere la tradizionale avversione ai partiti politici o perdere puramente e semplicemente.

Se si considera il numero dei vincitori al primo turno si vede che il centro sinistra è arrivato primo in 26 dei comuni con più di 15mila abitanti e in 22 il centro destra, rimangono 9 casi in cui vincitori sono liste civiche, difficili dunque da classificare. Al secondo turno, come si sa, il centrosinistra ha vinto in quasi tutti i comuni di maggior rilievo.
Particolarmente importante è la distribuzione territoriale delle vittorie al primo turno. Destra e centro destra vincono al Nord in 18 comuni, il centro sinistra solo in 5. Al Nord, dunque, il centrodestra, malgrado le sconfitte nei centri maggiori (cui si aggiunge il fatto che al secondo turno la Lega non è riuscita a riconquistare Varese, sua ex roccaforte storica, di grande valore simbolico), ottiene un risultato non disprezzabile. Al Sud, invece, il centro sinistra con sinistra e 5S da solo prevale al primo turno in 13, mentre la destra in 2. Nella zona ex, ma non troppo ex, rossa, la partita finisce 8 a 2 per il centro sinistra e questo per certi versi appare il dato più importante di tutti.

L’insieme di questi risultati sembra suggerire che mentre il Nord, con l’esclusione delle due più grandi città, resta difficilmente espugnabile per il centro sinistra, questa volta è al Sud che quest’ultimo raccoglie i suoi risultati migliori. La vicenda elettorale italiana è spesso stata decisa al Sud. Che ha di volta in volta ha oscillato tra partiti di destra e di sinistra. Quello del Sud è un elettorato particolarmente volatile e, al tempo stesso, necessario per ottenere una maggioranza in Parlamento. Finora c’erano riusciti piuttosto stabilmente solo la DC che era una oligarchia spalmata su tutto il Paese da Belluno a Trapani e che poteva fare a meno delle regioni rosse per vincere e poi Berlusconi. Salvini ci ha provato, ma non pare riuscirci. E il Sud che aveva dato l’impulso più forte al M5S nelle elezioni precedenti lo ha ampiamente abbandonato.

Che lezioni trarre da questi dati, che, per i tratti essenziali sono stati confermati dai ballottaggi? Innanzitutto, va osservato che si tratta di dati due volte parziali. Ha votato certo una parte rilevante del corpo elettorale ma non la sua interezza. Inoltre, per vari motivi, non abbiamo potuto qui considerare i dati dei comuni più piccoli. Ma sappiamo che esiste una distorsione a favore del centro sinistra che è più forte nelle città e meno nei piccoli centri. Bisognerà quindi rifare i conti alla fine, quando tutti i dati saranno disponibili. Anche allora peraltro il dato finale rappresenterà solo uno spaccato parziale del corpo elettorale, relativo a una elezione locale, che, come abbiamo già sottolineato, è organizzata da un sistema elettorale molto diverso da quello che esiste a livello nazionale. Ne consegue che qualsiasi trasposizione affrettata degli esiti di queste amministrative al possibile risultato di elezioni nazionali future non ha particolare senso, anche perché non si sa se le ultime avranno luogo alla scadenza del mandato parlamentare o prima. E nemmeno se con assoluta certezza si voterà con la legge Rosato. Nondimeno qualche osservazione non del tutto infondata si può forse fare.

Il partito di Giorgia Meloni sta effettivamente consolidando la “rendita di opposizione” e cattura il radicalismo di destra. La Lega di Salvini al Sud (ma anche in alcune grandi città del Nord) è stata seriamente ridimensionata. La strategia della Lega nazionale, come accennato, sembra mostrare delle difficoltà, non solo per la scelta affrettata e superficiale dei candidati (che viene spesso addotta come motivo principale della sconfitta, segnalando che, invece, gli esponenti proposti da Forza Italia hanno vinto sia a Trieste sia in Calabria), ma anche per motivi più strutturali. Ciò potrebbe suggerire nei prossimi mesi un orientamento diverso del messaggio leghista, ma non si tratta di una facile operazione. La Lega “bavarese” è fortissima nel Nord est, ma rischia di non essere più il primo partito della coalizione dentro la quale è stata dominante da alcuni anni.

Il PD ha il problema di superare le illusioni di una grande coalizione con i 5S. Certo, Conte, per permanere nella sua posizione e far sopravvivere il suo movimento, deve portare il suo partito ad un accordo stabile con il PD, ma il suo apporto rischia di essere questa volta minimo, se non irrilevante. Il PD potrebbe considerare l’ipotesi di cercare alleati anche verso il centro, oggi rappresentato soprattutto da Calenda, ma un accordo PD, 5S e formazioni politiche di centro sembra difficile a causa di possibili veti incrociati. Il sistema politico italiano in questo stato sembra avviato, se non ci sono mutamenti imprevisti, verso un bipolarismo, come abbiamo detto, assai fragile e malfermo. Al centro destra convivono con difficoltà forze moderate ed estremiste: filoeuropei (pochi) membri del PPE (partito popolare europeo, quello della Merkel), come FI, insieme ad alleati di Orban, di Kaczynski e di Marine Le Pen, i nazionalisti, come FdI e parte della Lega, fortemente malvisti dai più forti partner europei, con i quali l’Italia deve convivere senza conflitti.

Il centro sinistra a guida PD (in questo senso è vero che è finito lo strano tripolarismo inventato da Grillo) fatica a mettersi insieme con i grillini e ancor più a mettere insieme nella coalizione i grillini e i centristi di Calenda.
Ma queste due fragili coalizioni saranno inevitabili perché questo impone la legge elettorale con la quota di collegi uninominali dove gli alleati contro voglia devono andare insieme e mettersi comunque d’accordo su un candidato comune in ciascun collegio. Forse però bisogna ricordare che non basta vincere – questo sembra sufficiente ai partiti dallo sguardo miope – bisogna essere in grado di governare e con queste coalizioni sembra molto difficile. E la stessa stabilità che il vecchio modello Westminster sembra promettere appare oggi come una promessa di difficile realizzazione. La governabilità e la stabilità dipendono dalla competenza dei governanti, dalla solidità dei partiti politici e anche da leggi elettorali che siano in grado di escludere le ali radicali del sistema politico.

Renato Mannheimer, Pasquale Pasquino

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