Aria di tempesta nei Cinque Stelle. E di sfottò, nei Palazzi e sulla Rete. Tanto che qualcuno ieri alla Camera ha cambiato loro il nome: Movimento Cinque Percento. Ironia a parte, è quella la media nazionale di un partito che nelle città principali si ferma appena al dieci ma nei centri più piccoli lotta per non scomparire. Gli effetti del Conte tour non si sono visti. Contrariamente a quanto sbandiera la propaganda grillina sui social, le urne raccontano un Paese che festeggia una liberazione dal grillismo.

I risultati di Roma e di Torino, dove il day after ha proposto una distanza ancora maggiore a discapito delle liste delle sindache uscenti, sono ben descritti nella sintesi che ne fa Matteo Renzi nella sua newsletter: “Dove li hanno conosciuti meglio, i cittadini ne scappano via a gambe levate. Se li conosci, non li voti più”. Elettoralmente demoliti ovunque, ridotti all’inconsistenza o del tutto cancellati dai consigli comunali, gli ultimi grillini si guardano attorno storditi. Rispetto alle elezioni del 2018, soli tre anni fa, la rappresentanza dei Cinque Stelle è polverizzata. La leadership di Giuseppe Conte non ha esercitato un grande carisma, e anzi a ben guardare non è stata neanche in grado di frenare le tante avvisaglie della valanga imminente. Conte non ha saputo valorizzare i territori, individuare responsabili regionali, innestare sulla campagna elettorale il sapore della novità.

Scorrendo la lista delle tappe del Conte tour – quello che sul Fatto è stato seguito passo passo – si ha quasi l’impressione di trovarsi di fronte ad Attila. Al contrario di quanto era auspicato, con un motivatore tanto popolare tra i suoi, gli elettori delle città piccole, medie e grandi hanno voltato le spalle al Movimento soprattutto dopo il passaggio di Conte in piazza. A Trieste M5S aveva il 24,56%, dopo il passaggio di Conte ha preso il 3,62%. Perdendo l’85,26%. Poi Conte se n’è andato a Merano, per vedere se giocando con un po’ di tedesco si fosse fatto capire meglio. È arrivato che l’M5S aveva il 10,59%, dopo Conte ha preso l’1,90%, contenendo le perdite all’82 per cento. A Pordenone Conte si è trattenuto tre ore buone, ha riempito la sua mezza paginetta quotidiana di foto su Facebook, e il Movimento è passato dal 22,30 al 2,97%. “Il nord non ha mai amato troppo i Cinque Stelle”, si incarica di dire l’avvocato d’ufficio Antonio Padellaro, sentito da La7. E allora andiamo sul sicuro, in casa Di Maio. Nella Campania felix che ha regalato loro tante soddisfazioni: ministri, sottosegretari, voti. Ecco Giuseppe Conte che tocca terra come neanche il Feroce Saladino. Santa Maria Capua Vetere passa dal 48,50% al 4,97. Perde quasi il 90% dei voti. A Battipaglia si va dal 43,12% al 3%, perdendo il 93%. Stessa proporzione per Afragola, dove Conte si batte il petto e rivendica pure la stazione dell’alta velocità, tra un selfie e l’altro, e fa passare il M5S dal 57,68% al 4,42%.

Una débacle senza precedenti nella storia elettorale italiana. A Latina si lasciano a terra oltre il 90% dei consensi. A Rimini si perde il 91%. A Varese – anche lì dopo un bel comizio in piazza di Giuseppi – cambiano idea il 91,2 % degli elettori grillini. Una carneficina elettorale annotata per filo e per segno in un foglio Excel che gli uffici del Movimento alla Camera hanno cercato di non far uscire, e che purtroppo è giunto nelle nostre mani. Perché ai dati pubblici si affianca l’intervento di Giuseppe Conte: dove è andato a parlare, gli incontri che ha fatto, le mani che ha stretto, le cene e i dopo cena. Tutto inutile, anche se lui sembra non volersene rendere conto. Virginia Raggi non ha mandato giù lo sgarbo del leader Conte e di Luigi Di Maio che a urne appena chiuse, sentiti gli exit poll, hanno preso le macchine per correre a Napoli, ad abbracciare Manfredi eletto sindaco al primo turno, e non si sono fatti né vedere né sentire dall’ex sindaca di Roma, mollata così, su due piedi. L’esigenza televisiva era quella di correre ad abbracciare qualcuno, un vincitore. E poco importa dunque se Manfredi, più area Pd che 5S, era stato nei giorni prima a colloquio con Maria Elena Boschi, ed è stato eletto anche con il sostegno di Italia Viva, rappresentata a Napoli da Gennaro Migliore.

Conte e Di Maio dovevano gioire, recitava il copione. E così, non conoscendo bene le regole dell’etichetta – che sono state ricordate loro da Giorgia Meloni, nella vita amica personale di Virginia Raggi – le hanno offerto l’occasione per smarcarsi dagli accordi di partito: “I miei elettori non sono pacchi postali, io non sostengo né GualtieriMichetti al secondo turno”. Sarebbe una bomba sulla strada dell’asse strategico Conte-Letta, se la posizione non venisse mediata da Grillo in persona. È lui a chiamare Virginia Raggi e a ricondurla a più miti consigli. Era stato lui, alla vigilia, a rassicurarla: “Virginia, tu non sparirai nel caso perdessi la corsa: avrai un ruolo nel Movimento 5 stelle”. E c’è anche l’eterno ribelle del Movimento, Alessandro Di Battista, che si era speso in campagna elettorale per Raggi e, all’indomani del voto è stato il primo ad abbracciarla: “Grazie di cuore, Virginia. Grazie per la dignità, per l’impegno. Grazie per quei no coraggiosi. Certi no urlati ad un sistema di potere marcio ti hanno tolto il sonno lo so. Ma non ti hanno tolto credibilità”.

D’altronde c’è, nel M5s, la consapevolezza che il risultato della sindaca uscente qualcosa pur peserà sugli equilibri nazionali. Ecco fuori tempo massimo Luigi Di Maio, accortosi della miccia innescata sulla dinamite che ieri sera l’ha ringraziata con trasporto tardivo e un po’ sospetto. “Grazie per tutto quello che hai fatto. Nonostante mille difficoltà, attacchi e insulti non ti sei mai arresa. Sempre a testa alta. Se Roma è diversa, se oggi la Capitale d’Italia è una città che fa della legalità un caposaldo irrinunciabile, il merito è tuo”, ha fatto sapere Di Maio sui social. Troppo tardi? Raggi gli risponde sibillina: “Nei prossimi giorni faremo necessariamente una riflessione. Prevengo subito polemiche assurde: nessun attacco. Non è il momento di dividerci. È il momento di restare uniti, più che mai”. Non vengono però meno le voci che la danno in costante contatto con Di Battista per ragionare – al riparo da occhi e orecchie indiscrete – di un futuribile nuovo movimento fatto per restaurare lo spirito delle origini. Tutte le strade, si sa, partono da Roma.

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.