La sconfitta della sindaca uscente
C’era una volta Virginia Raggi, dal plebiscito al quarto posto in cinque anni
C’era, forse, una volta Virginia Raggi. Occorre, ancora forse, adesso immaginarla mentre fa ritorno a via Cassia, tra Giustiniana e Ottavia, dal coniuge amorevole, che l’ha, giustamente, fiancheggiata, thermos in mano, anche nei momenti più accidentati della sua esperienza di amministratrice dell’Urbe. Al momento, tuttavia, mentre lo spoglio è in corso, Virginia può contare sul conforto morale di Antonio Padellaro, pronto a offrirle, d’ufficio, una via di fuga onorevole, spiegando che su di lei, destino ingiusto, si sono accaniti “tutti i poteri forti, e nessun giornale mai, tolto uno, a sostenerne l’impresa”.
Appare ora sostanza discutibile anche la narrazione della discontinuità rispetto al degrado pregresso e circa lo sfascio conclamato della Capitale. Da lei già conquistata in modo plebiscitario, miracolistico, con il traino del Movimento 5 Stelle. La Raggi subito benedetta, allora, da un Beppe Grillo, antipapa affacciato a una finestra sul Foro di Traiano, lo stesso luogo che il pittore Peter Blume, negli anni Trenta, seppe raffigurare come allegoria di una città stracciona e insieme domicilio di fantasmi osceni. A poco sembra essere servita la vicinanza di chi segnalava che nella città d’ogni pasticciaccio brutto, e perfino mafioso, lei, la Raggi, almeno questo, diversamente dai “soliti politici”, sì, che Virginia, “non ha mai rubato, e ti pare poco?”.
Alla fine del carosello equestre rionale sembra tuttavia plasticamente accertato che, nella sua travagliata esperienza in Campidoglio, abbiano pesato, ma sono supposizioni non meno fantasmatiche trattandosi sempre di Roma, le cataste di immondizia mai smaltita, i servizi urbani invisibili agli occhi di chi attende un semplice 60 sotto le paline; in centro così come oltre il Raccordo Anulare. A dispetto perfino dell’Atac, risanata nei suoi bilanci, come più volte la sindaca ha rivendicato con puntuto orgoglio personale. E ancora, su tutto, la sensazione di una città irredimibile, condizione un tempo esclusiva dei luoghi prossimi alle terre desertiche meridionali, assente a ogni minimo minuto mantenimento, ciò che ogni governo urbano dovrebbe garantire ai residenti, oltre ogni ostacolo burocratico. Pretendere, in nome dei diritti di cittadinanza, ciò che retoricamente è detto con semplicità decoro. Assente nel centro storico così come nelle periferie disperse oltre i confini ufficiosi di viale Palmiro Togliatti, memoria toponomastica delle remote ormai “giunte rosse”.
Il passante che ieri sera si fosse trovato in via Veneto, feticcio decomposto di una tramontata età dell’oro della Dolce vita, si sarebbe accorto dell’abbandono: vetrine spente nel sudiciume dei destini della cessata attività e i cespugli a crescere ovunque. Chissà però se basterà questo dato visibile a occhio nudo per spiegare il cupio dissolvi della candidata grillina. La storia della sua giunta, western capitolino, sit-com post-clientelare, ha mostrato avvicendamenti, defezioni, piccoli scandali, disconoscimenti di chi, almeno inizialmente, veniva indicato come “braccio destro”, e a nulla, forse, sembrano essere servite le parole della sindaca sempre lì a mostrare se stessa come paladina di discontinuità, d’essere stata l’Unica a scegliere eroicamente di abbattere le costruzioni abusive dei signori Casamonica. Non sarà neppure necessario ricorrere, immaginandone la possibile uscita di scena, alla metafora del rogo del Ponte dell’Industria, vestigia della città del tempo del sindaco Nathan, che collegava l’originaria area dei Mercati generali di via Ostiense con l’insediamento commerciale popoloso di piazzale della Radio e Viale Marconi.
Di sicuro però, chi quell’istmo era costretto a praticarlo, attraversando il ponte segnato pure dal ricordo di un eccidio nazifascista, al momento di mettere la scheda nell’urna nulla esclude che non abbia con soddisfazione decretato l’addio per sempre a Virginia. Certo, a Roma non ci sono problemi poiché non ci sono soluzioni, nulla può essere toccato senza scatenare la rivolta di tassisti e commercianti, e a poco vale che la città sia un unicum monumentale irripetibile, dunque da proteggere perfino in armi. Ai suoi sostenitori segnati da pervicacia nipponica, asserragliati nella giungla grillina, probabilmente resterà il retropensiero che proprio quell’incendio a ridosso delle elezioni sia un atto doloso. Ancora di più facendo caso al nome dell’imperatore Nerone risorto per l’occasione in una lista degna del genio di Ettore Petrolini. Quest’ultimo, provando a raccontare il proprio possibile imminente decesso, riportando le parole del medico che gli garantiva invece un quadro clinico dove “tutto è a posto”, concedeva: “Bene, si vede che così muoio guarito”. Peccato che la Roma di Virginia Raggi sia trapassata giorno dopo giorno, senza mai dare un fremito di ritorno al respiro ordinario. Le rimarrà, forse, la cocciuta convinzione di avere fatto bene a rifiutare una possibile seconda Olimpiade.
I cinici potranno invece dire che nel tracollo di Virginia Raggi, Roma specularmente appare sempre più provincia di Ciampino. Peccato ancora che lei, diversamente da Umberto di Savoia, lasciando il Palazzo Senatorio, non potrà nominare nessun conte o semplice assessore della Scaletta o della stessa Ciampino capitale. C’era una volta Virginia Raggi: piazza della Consolazione, si innalza invece come possibile, questa volta sì, metafora per coloro che dovranno darle conforto, ha luogo alle spalle del Campidoglio, tra Rupe Tarpea e la chiesa omonima dove, anni addietro, Alberto Sordi ricevette l’investitura ufficiale di vigile, pizzardone, ad honorem. C’era una volta Virginia Raggi lo abbiamo già detto? Ballottaggio o meno.
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