È un voto che fa chiarezza su tante incognite. E che spazza via i populismi. A destra e a sinistra. In questo senso le amministrative 2021 sono realmente il primo voto post Covid nel senso che iniziano a disegnare la nuova geografia politica post pandemia. Dalle urne escono quattro vincitori e quattro sconfitti, ciascuno diverso per contenuti, storia e sviluppi futuri. Al di là delle singole città e dei rispettivi sindaci, potremmo parlare di otto diversi messaggi politici.

Tra i vincitori c’è sicuramente il governo Draghi. Le sirene di un voto anticipato rispetto alla fine naturale della legislatura hanno cessato improvvisamente di suonare ieri a metà pomeriggio quando i dati dello spoglio hanno assunto consistenza. Il primo a rendersene conto è stato palazzo Chigi: alle cinque del pomeriggio lo staff del premier manda la comunicazione per la convocazione – oggi – della cabina di regia che dovrà discutere della delega fiscale, il provvedimento che Draghi porterà tra mercoledì e giovedì in Consiglio dei ministri. Della serie, chiuse le urne, dobbiamo tornare subito a lavorare perché il governo e la sua larga maggioranza devono spendere bene i soldi del Pnrr – diverse centinaia di milioni al giorno – che diversamente rischiano di restare incagliati nei meandri delle burocrazie.

La conferma arriva tra le 18 e le 19, quando parlano più o meno tutti i leader politici. Il neo deputato Enrico Letta, nel rivendicare con orgoglio «una larga vittoria con una larga maggioranza» ha detto chiaramente che «il voto rafforza l’Italia, il governo Draghi e l’Europa». Messaggio chiaro per chi nel Pd e nei 5 Stelle coltiva ancora la tentazione di andare a votare dopo l’elezione del Capo dello stato. Matteo Salvini, il primo a dichiarare nonostante la sconfitta, ha chiarito: «Noi siamo e restiamo al governo per occuparci di lavoro, tasse, salute e sviluppo». Il secondo vincitore morale è Carlo Calenda. L’ex ministro e segretario di Azione non è arrivato al ballottaggio ma il 18-20 per cento di consensi conquistati uno per uno in un anno di campagna elettorale quartiere per quartiere e spiegati in un programma di 2200 pagine è l’unica, vera sorpresa di questo voto. La sua rischia di essere alla fine la lista più votata. Ed è la prova che Calenda sarebbe oggi già sindaco se centrosinistra, il Pd e lo stesso Calenda avessero avuto l’umiltà di convergere su di lui. Non è successo. «Ha vinto ancora il voto di appartenenza» ha ammesso l’ex ministro che da oggi riprenderà il suo ruolo di segretario di Azione e di europarlamentare (eletto col Pd) per la costruzione e l’organizzazione di un’area politica che definisce di “riformismo pragmatico”.

Ora, ha aggiunto, «si apre una fase di lavoro nuovo a livello nazionale». La costruzione di un «nuovo centro progressista riformista e pragmatico» che potrebbe dare molto fastidio al Pd se Letta non saprà fare le scelte giuste. Sta qui il nuovo orizzonte e la prossima frontiera della politica nazionale. Non si sa ora cosa farà Calenda del “suo” pacchetto di voti. Il corteggiamento in vista del ballottaggio è già iniziato. «Rappresento una lista civica nel reale senso del termine – ha spiegato il leader di Azione – ci sono elettori di destra, sinistra e centro. Non faremo apparentamenti con nessuno. Qualunque decisione sarà presa non saranno chieste contropartite». Ha vinto senza dubbio il Pd. In certe situazioni inerzia e galleggiamenti possono essere scelte tattiche paganti. Letta, entrato in Parlamento avendo stravinto nel collegio di Siena, ha messo in fila la regioni del successo. «Cinque anni fa al primo turno non avevo vinto nessuna città, oggi ne portiamo a casa tre, Milano, Bologna e Napoli. Si vince se si allarga la coalizione e per questo ringrazio tutta la coalizione (da Italia viva a Leu passando per i 5 Stelle, ndr), vi ho sentito tutti vicini oltre il Pd e questo credo sia qualcosa che scioglie ogni polemica circa l’assenza del simbolo del Pd».

Di questo progetto di centrosinistra largo, ha subito chiarito il segretario del Pd, «Carlo Calenda sarà il principale interlocutore». Parole chiare anche rispetto ai 5 Stelle e a Giuseppe Conte che «saranno una parte di questa interlocuzione nel campo largo del centrosinistra». Tradotto: i 5 Stelle possono essere compagni di viaggio ma è chiaro che il perno è un Pd che guarda al riformismo, a “diritti, ambiente e lavoro”. Possiamo dirlo: un ribaltamento totale di ruoli rispetto a otto mesi fa quando lo slogan del Pd era “o Conte o morte”. Un’altra era. Tra i vincitori c’è Forza Italia. Al di là delle cifre (26% in Calabria, 18% a Napoli, sopra il 5% in tutte le grandi città), insperate fino a poche settimane fa, il centrodestra si salva e mantiene una prospettiva solo grazie a Forza Italia. Letta, dal Pd, la mette così: «Abbiamo dimostrato che il centrodestra è battibile perché non c’è più un federatore come lo è stato Silvio Berlusconi». Un riconoscimento e una centralità che i due leader della destra italiana avevano ignorato con troppo facilità. Forse. Berlusconi in questi giorni tra interviste, smentite e dichiarazioni a margine aveva detto e previsto un sacco di cose. Una soprattutto: «Il centrodestra in Italia non può esistere senza una forza moderata, liberal ed europeista. Per questo Giorgia e Matteo sono unfit per andare a palazzo Chigi». Hanno cercato di farle passare come parole dal sen fuggite. Le hanno smentite. Sono quelle uscite dalle urne. La centralità che Forza Italia può rivendicare – e si capisce così perché Berlusconi ha sempre detto sì ma anche frenato la nascita del “centrodestra di governo” – ci conduce dall’altra parte del foglio. Quella degli sconfitti di questa tornata elettorale.

Ha perso la politica: il 50 per cento di astensione è sempre una pessima notizia anche perché quella metà di aventi diritto che non hanno esercitato il loro diritto – soprattutto nelle periferie – sono persone sfiduciate, piene di problemi che non trovano più risposte nella politica. Hanno perso i sovranismi e i populismi. Chi ha cavalcato no pass e no vax, chi ha detto no a Draghi e all’Europa e chi ha detto sì ma ha continuato a dire no. Chi ha votato ha mandato un messaggio chiaro: basta perdere tempo in battaglie inutili e chiassose. La Lega non va bene ma Fratelli d’Italia non ne approfitta. La crisi è evidente e non potranno dare la colpa ai veleni pre- elettorali, il caso Morisi da una parte e il caso Fidanza dall’altra. I veleni in campagna elettorale sono un classico. Inutile dare la colpa alla magistratura. Salvini, a cui va riconosciuto il coraggio di metterci sempre la faccia, è stato il primo leader a parlare e ad ammettere la sconfitta e gli errori. Soprattutto nella “modalità” della scelta dei candidati: «Li abbiamo scelti troppo tardi e non hanno avuto il tempo di farsi conoscere. Ora concentriamoci sui ballottaggi».

Il leader della Lega, su cui pesano alcuni sorpassi locali da parte di Fratelli d’Italia, comunque non ha dubbi sul futuro: «Il centrodestra deve procedere unito visto che comunque alle fine, al di là delle grandi città, avremo più sindaci di prima». Per quello che riguarda la Lega, poi, il segretario ha puntato il dito contro gli scandali ad orologeria degli ultimi giorni. E ha confermato una nuova agenda: «Stiamo e restiamo stabilmente nel governo Draghi per occuparci di lavoro, salute e sicurezza». Giorgia Meloni può fare solo una cosa: rivendicare una buona prestazione e lanciare «il centrodestra a trazione Fdi perché è molto competitivo». Ma è una via chiusa, senza sbocco se Meloni non farà prima di tutto chiarezza nella sua base e nella sua classe dirigente rispetto ai nazionalismi e ai sovranismi che escono sconfitti dal voto. E rispetto a certe nostalgie del ventennio.

Infine i 5 Stelle. Hanno perso tutto a Roma e Torino e resistono in quelle città –Napoli e Bologna– dove per tempo hanno deciso di stare in coalizione col Pd. All’ombra, però, del Pd. Illuminante il post di Beppe Grillo: «Dodici anni fa abbiamo fatto l’impossibile. Adesso va fatto il necessario». Sullo sfondo una foto di Grillo e Casaleggio. Cos’è ora “il necessario”? Per Giuseppe Conte, che ha posizionato il Movimento “nell’area del centrosinistra”, si apre una nuova faticosa stagione di scelte.

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Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.