Non ci sono più i quadrumviri di una volta! Perfino “la destra”, nonostante le venga tutto facile per amore di semplificazione, fatica ormai a fare il suo mestiere. Così perfino agli occhi dell’osservatore disincantato, in grado di cogliere ogni cosa a volo d’uccello. Lo stesso accade al semplice volenteroso cronista, condannato per contratto alla valutazione dell’ordinario in corso d’opera, anche lui finalmente ha modo di constatare l’assoluto stallo di certa forza politica.

Il contrasto fra destra e il suo contrario si conclude dunque in modo simmetrico: fallimentari sia l’una sia l’altra. Negata la sinistra, altrettanto deficitaria la destra. A quest’ultima, restano tuttavia i succhi gastrici e la bile reazionaria, vero bagaglio subculturale che le va riconosciuto per l’acquisizione dei consensi a mani basse, soprattutto da quando i movimenti populisti le hanno dato una spinta ulteriore, talvolta surclassandola anonimamente, autoconvocandosi. Va aggiunto però, come già accennato, che proprio la destra, da cui certuni si aspettavano ogni genere di soddisfazioni xenofobe, sembra essere precipitata nel sottoscala dell’impasse. Eppure, in verità, secondo alcuni commentatori in possesso dei microscopi della valutazione oggettiva, da noi in Italia esisterebbero ormai unicamente forme organizzate “di destra”, al di là della verniciatura post-ideologica più o meno invitante di cui si ammantano.

Volendo utilizzare il dialetto antropologico caro ai meridionali, diremmo che nella situazione data assistiamo, per le forze di regresso, unicamente allo spettacolo di una “barca scordata”. Cioè, pronunciando la cosa in termini colti, alla tragica visione della “Zattera della Medusa”, capolavoro del pittore Theodore Géricault, dove si mostrano le difficoltà di un equipaggio intento a non affogare nel mare procelloso; e non si tratta certo di migranti, no, perfino la destra in questo caso sembra andare incontro a un destino crudele in fondo agli abissi. Certo, nel nostro incerto Paese esiste immancabile nel quotidiano l’insorgenza d’ogni possibile variante del “fascismo”, bene rifugio della subcultura familiare nazionale. Poiché il “fascismo”, perfino declinato in termini di soap-opera, offre appunto mille occasioni di semplificazione rassicurante davanti ai gorghi epocali.

Intendiamoci, sempre in Italia, gli ultimi decenni hanno visto emergere almeno tre prodigiosi Mandrake della politica, illusionisti, incantatori, maestri nel gioco della seduzione immediata, a loro modo altrettanti testimonial delle destre possibili e variegate: Bossi, Berlusconi, Beppe Grillo e Renzi. Sorvoliamo sul giubilato Bossi. Soffermiamoci invece sul passaggio di testimone a Salvini, rifinitore in chiave globale di un partito ai suoi primordi nibelungico. Anche in questo caso, sembra di vederlo annaspare. Ancora, in uno spazio solo apparentemente distante, andrebbe citato Giuseppe Conte. Ma andiamo con ordine. Nel rendiconto, nel conguaglio, nell’attesa degli agognati arretrati elettorali oltre gli exploit iniziali, le nostre destre mostrano la resa definitiva, nonostante la sensazione di poter contare sui già citati rispettivi Mandrake.

Provando infatti a passare in rassegna lo stato attuale di queste singole forze politiche, utilizzando un’immagine da parata ai Fori (già) Imperiali, la sensazione, sia detto ancora una volta prosaicamente, mostra incerte armate, compresa l’abissale Forza Italia di Silvio Berlusconi, ormai, sì, statista redento, ma altrettanto a puro spirito. Giuseppe Conte, l’uomo che sembrava invece per sua medietà dorotea destinato a conquistare una fascia d’elettori centristi, vuoi per beghe interne al movimento che l’ha inizialmente cooptato tra le grisaglie inurbate nel Palazzo romano, vuoi per assenza di un necessario “fisico del ruolo”, quest’ultimo si ritrova ora cinicamente indicato quasi come un “quaquaraquà”; definizione questa che non vuole essere qui né offensiva né derisoria, semmai cogliere una categoria attitudinale coniata da Sciascia, modesto piazzamento sul podio del talento.

Umanamente parlando, possiamo comprendere il rifiuto d’ogni fatica da agit-prop, con relativi sbattimenti, cui l’avvocato Conte sembra sottrarsi. Appare così sempre più difficile reperire personale qualificato di ceppo centrista in grado di stregare il potenziale elettore anche nei momenti più impensati. Ossia: Giuseppe Conte è ben più assimilabile a Gustav von Aschenbach di Morte a Venezia che non al solerte Dc Remo Gaspari che riceveva i suoi “clientes” anche nell’abituale stabilimento balneare degli Abruzzi. La Lega, allora. Verissimo che, passati i tempi preistorici di Bossi, a Matteo Salvini è riuscito di trasformare un ringhiante movimento localistico nel ricettore d’ogni sentimento populistico diffuso. Da Gallarate a Frosinone, per citare una remota trasmissione radiofonica, e ancora da Battipaglia ad Addis Abeba, come al tempo del Littorio veniva indicato il Meridione d’Italia.

Vi risparmieremo nella nostra postilla l’idea che la politica debba essere realismo e mediazione, fino a battere la testa sullo stipite della concretezza; servirà a poco che i cronisti compiacenti parlino di una Lega di piazza e un’altra “di governo”, la prima destinata a risucchiare il voto dei complottisti in tempi di “dittatura sanitaria”. A nulla.
Dimenticavo Matteo Renzi, il proteiforme che avrebbe voluto obliterare la dicotomia Destra-Sinistra. Anche in questo caso, gli attesi riscontri non sembrano più sfiorarlo, almeno nelle urne, i sondaggi non mentono. L’uomo infatti vive ancora di rendita sul tesoretto elettorale delle elezioni ormai trascorse: “Un’estate fa…”, direbbe la canzone dei rimpianti. Il medesimo risultato sarebbe ormai impensabile per un partito di cui molti ignorano perfino il nome sulla scheda.

Chi avesse temuto il ritorno di Grillo, Salvini, Conte, Renzi, e perfino Berlusconi, deve rasserenarsi. Non ci sono più i decisi di una volta. Mario Draghi, nei panni dell’arbitro, diversamente dal re, questa volta non dovrà convocare nessuno di loro per cedergli lo scranno. Resta presso alcuni l’illusione nostalgica di un pensiero che si pretendeva “forte”, e invece? Sembra una vita fa quando risuonava l’appello minaccioso dei “Parlateci di Bibbiano!” Anche “La Bestia”, a lungo imperterrita macchina di propaganda salviniana, è ormai un’eco visiva lontana, al pari del duce che affermava: “La cinematografia è l’arma più forte”. Dimenticavo la Meloni: duro, il compito di dimostrare d’essere l’unica vera interprete della destra, e gli altri concorrenti solo sottomarche. Duro il mestiere di madrina dei complottisti, in certi casi non basta neppure il supporto di un partito di cognati. Proprio vero che non ci sono davvero più i quadrunviri di una volta.

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Fulvio Abbate è nato nel 1956 e vive a Roma. Scrittore, tra i suoi romanzi “Zero maggio a Palermo” (1990), “Oggi è un secolo” (1992), “Dopo l’estate” (1995), “Teledurruti” (2002), “Quando è la rivoluzione” (2008), “Intanto anche dicembre è passato” (2013), "La peste nuova" (2020). E ancora, tra l'altro, ha pubblicato, “Il ministro anarchico” (2004), “Sul conformismo di sinistra” (2005), “Roma vista controvento” (2015), “LOve. Discorso generale sull'amore” (2018), "Quando c'era Pasolini" (2022). Nel 2013 ha ricevuto il Premio della satira politica di Forte dei Marmi. Teledurruti è il suo canale su YouTube. Il suo profilo Twitter @fulvioabbate