Nel Paese degli anniversari e delle ricorrenze si sta celebrando in queste settimane il trentennale più bizzarro e anomalo di tutti. Si ricorda, e spesso si festeggia, la scoperta della lista degli iscritti a una loggia massonica segreta, Propaganda 2, o P2 che dir si voglia. I pm Gherardo Colombo e Giuliano Turone incapparono in quegli elenchi quasi per caso, grazie a una perquisizione nella villa del Gran Maestro della loggia, Licio Gelli, ad Arezzo, dove non trovarono niente, e negli uffici della fabbrica Lebole di cui il Venerabile era direttore, la “Giole” di Castiglion Fibocchi, dove saltò invece fuori la valigetta con i 960 nomi eccellenti degli iscritti. Tra i quali lo stesso comandante della Guardia di Finanza che eseguiva la perquisizione, Orazio Giannini.

I due pm cercavano materiale attinente all’inchiesta che stavano conducendo sul falso rapimento di Michele Sindona. Trovarono materiale ancora più incandescente, perché in quel listone figurava di tutto: tre ministri, i segretari particolari del capo dello Stato e del presidente del Consiglio, una quarantina di parlamentari, alti ufficiali di un po’ tutti i rami dell’esercito, i vertici dei servizi segreti, magistrati in quantità industriale, uno stuolo interminabile di giornalisti. La lista rimase segreta per qualche giorno ma quando fu resa pubblica l’esplosione fu nucleare. Provocò la caduta del governo, presieduto allora da Arnaldo Forlani, la formazione di una commissione parlamentare d’inchiesta (le cui conclusioni furono che dietro i burattinai doveva per forza esserci qualche altro puparo ancora più occulto), l’avvio di una rilettura complessiva e ancora in auge della storia italiana ispirata a una versione triviale e molto semplificata della teoria del “doppio Stato” dello storico Franco De Felice. Essendo la voracità dei patiti del complotto insaziabile, la scoperta fu ritenuta subito parziale. Ai 960 iscritti la cui identità era stata rivelata dovevano certamente aggiungersene altri: almeno sei volte tanti secondo non meglio giustificate ipotesi. Dietro la loggia segreta doveva certamente essercene un’altra, ancora più ristretta e ancora più segreta. A muovere i fili del burattinaio poteva esserci solo qualcuno persino più luciferino del demoniaco Licio, e chi se non Belzebù in persona, al secolo Andreotti Giulio, il potentissimo e altrettanto chiacchierato leader della Dc che del resto conosceva e probabilmente aveva anche protetto Gelli davvero?

Alla P2, da quel momento sino al giorno d’oggi, è stato attribuito di tutto e di più. Una piovra al confronto della quale la Spectre da James Bond era un’innocua seppiolina, un Dizionario enciclopedico del crimine riassunto in unica loggia. L’elenco dei fattacci nei quali la loggia sarebbe implicata è impressionante: il minacciato golpe di De Lorenzo nel 1964 (anche se Gelli era allora appena entrato nella massoneria e la guida della P2, esistente sin dal 1877, era di là da venire di 7 annetti buoni), il tentato golpe Borghese del 1970 (dove Gelli avrebbe svolto un doppio ruolo: organizzatore con delega al sequestro del capo dello Stato ma anche autore della misteriosa telefonata che ordinò a Borghese di soprassedere, e poco male se le due parti in commedia sembrano incompatibili), la collaborazione alla strage dell’Italicus dell’agosto 1974, in combutta con Mario Tuti e i neofascisti toscani (che però sono stati tutti assolti, Tuti incluso), il fallimento del Banco Ambrosiano (per il quale Gelli è stato effettivamente condannato per bancarotta fraudolenta, ma che suona più come un losco affare che non come un attentato allo Stato democratico), l’omicidio di Mino Pecorelli e quello di Roberto Calvi (accuse cancellate dalle indagini l’una e l’altra), la strage di Bologna (qui una condanna per il depistaggio del gennaio 1981 c’è ma l’intera vicenda è oscura: il presunto depistaggio era in realtà un “impistaggio” che indicava la pista Nar, sino a quel momento non ancora battuta dagli inquirenti), e poi ancora la strage di Bologna (ipotesi fantasiosa evocata solo negli ultimi tempi con un’inchiesta che vede coinvolti come mandanti solo estinti e che si basa su elementi tanto fragili da rendere molto improbabile una condanna), Tangentopoli (non si capisce bene su quali base e neppure con quali accuse ma tant’è e poco male se la loggia era stata sciolta da oltre un decennio).

Non che possa mancare la mafia, perché trattandosi di organizzazioni segrete e criminali, l’alleanza è nell’ordine delle cose: Gelli sarebbe stato il referente di Cosa nostra, fazione corleonese, a Roma, una specie di banchiere di don Totò. Ma di evidenze o almeno di elementi tali da giustificare un processo non si è vista traccia. Il tutto senza contare le piste internazionali, con Gelli sospetto di coinvolgimento nello sterminio dei dissidenti da parte delle dittature sudamericane ma anche nell’amputazione delle mani del cadavere del suo ex amico Peron, per usarne le impronte digitali e accedere al tesoro del medesimo. Con questa mole di cospirazioni, stragi e omicidi a carico, è ovvio che l’anniversario della scoperta della loggia sia ricordato, festeggiato, accompagnato da amare riflessioni sulla sopravvivenza dei complotti al pur ferale colpo allora inflitto, condito da immancabili appunti su quanto ci fosse e ci sia ancora da scoprire. Ci vuole una certa attenzione per scoprire l’aspetto grottesco della ricorrenza. La P2 era un’associazione segreta ma legale: la legge che rende organizzazioni del genere illegali fu varata proprio in seguito alla scoperta della loggia. La segretezza era relativa: del ruolo della massoneria si era parlato più volte negli anni ‘70 e lo stesso Gelli aveva illustrato nel dettaglio i progetti suoi e della loggia in un’intervista all’affiliato Maurizio Costanzo sul Corriere della Sera.

L’adesione alla mefitica organizzazione criminale ha danneggiato molte carriere ma non ha portato a nessuna condanna e c’è qualcosa che non torna in una organizzazione segreta e criminale che mira a smantellare lo Stato democratico, a cui vengono addossate le trame più oscure e i delitti più odiosi della storia repubblicana senza che nessuno sia poi mai condannato. Nemmeno il diabolico Licio, condannato sì ma per bancarotta fraudolenta, depistaggio più un paio di calunnie ma nulla di più. Il nodo sta probabilmente nell’obiettivo finale degli oscuri manovratori. Quel “Piano di rinascita democratica” sequestrato nel luglio 1981 alla figlia del Venerabile e assurto nella fantasia pubblica al progetto di sepoltura della democrazia, tanto che ancora oggi fioccano le accuse a carico di politici di diversa estrazione di “stare attuando il piano di Gelli”. Non che quel progetto fosse misterioso, dal momento che lo stesso Incappucciato numero uno lo aveva illustrato e magnificato nei dettagli sul principale organo di informazione allora disponibile. Ma soprattutto il disegno si limitava a una riforma costituzionale robusta ma non inconcepibile, profonda ma non certo neofascista.

Prevedeva il bipolarismo, la riduzione del numero dei parlamentari, la fine del bicameralismo perfetto, la sfiducia costruttiva, la non rieleggibilità del capo dello Stato, la separazione delle carriere in magistratura, la responsabilità civile dei giudici, gli sgravi fiscali per i capitali stranieri che investivano in Italia. Tutto discutibile, niente inaccettabile e infatti puntualmente l’una o l’altra proposta rispunta e qualcuna si afferma anche a larga maggioranza. Il passaggio più torbido riguardava l’idea di controllare l’informazione (anche se Gelli immaginava la privatizzazione della Rai) e in effetti il principale risultato, anzi forse l’unico conseguito dalla tentacolare loggia fu la conquista del Corriere della Sera, con la sostituzione di Piero Ottone con l’affiliato Franco Di Bella alla direzione. Non che Gelli fosse uno stinco di santo.

Fascista e sospettato, chissà se con qualche fondamento, di essersi portato a casa parte del tesoro del re di Jugoslavia mentre lo trasportava in Italia per conto del Pnf, ufficiale di collegamento tra Salò e Germania ma rapido nel cambiare bandiera e diventare partigiano al momento giusto, manutengolo di un alto notabile democristiano nel dopoguerra, il Gran Maestro era magistrale soprattutto nella raccolta di informazioni da usare a proprio vantaggio e nel capire l’importanza, soprattutto in un Paese come l’Italia, di avere a disposizione le conoscenze giuste e di proporsi come contatto e tramite tra le stesse: la formula con la quale riuscì a rendere per un po’ la sua loggia appetibile per chiunque fosse in carriera nei rispettivi campi. Ma con tutte le macchinazioni di don Licio, che sono in gran parte ma non del tutto leggenda, il mito della P2 demoniaca e onnipresente resta solo l’ennesima versione del modello fisso di tutti i “complottisti”: I Protocolli dei Savi di Sion.