Né ora né mai Resilienza! Ecco, ci costringono a parafrasare i versi di Piero Calamandrei, riferiti invece all’epica della Resistenza, per manifestare il fastidio personale rispetto a un concetto ultimamente molto in voga, un concetto smart, categoria illeggibile del pensiero e dell’attitudine esistenziale, se non politica, e tuttavia di immediato ampio riscontro, cioè, appunto, la “Resilienza”.

Perfino il ministro della cultura, Franceschini lo ha appena assunto su carta bollata dello Stato, chiamando il proprio “Marshall”: “Piano nazionale di ripresa e resilienza”, testuale, segue l’acronimo (“Pnrr”) a segnalarne il varo effettivo. Chissà se almeno lui, Dario, ne conosce il significato esatto, assodato plebiscitariamente che cosa sia con precisione questa “resilienza” appare davvero problematico, qualcosa di oscuro pari solo alla sua incredibile duttile spettacolarità lessicale. Adesso molti diranno invece che la sua sostanza è chiarissima, sì, un concetto, come dire, “lubrificante” che cancella ogni peso rispetto ai gravami di quell’altro genere di pensiero, cioè il piombo dell’ideologia che toglie respiro e forse cancella anche il sentimento. Insomma, una variante in seta estiva dalla notevole vestibilità del già testato “pensiero debole”, perfetta per descrivere la voglia di non ostinarsi più del dovuto per comprendere o addirittura mettere in discussione l’esistente. Resilienza come Alka-Seltzer della dialettica complessa e meditabonda.

Così sia, ciononostante restiamo fermi nella nostra idea: gli stessi professionisti indefessi dell’informazione-hastag ne ignorano il significato, la assumono come fosse la vecchia cara scatola di marron glacé: “Guarda che ti ho portato? Ti piacciono?”. E il festeggiato: “Grazie, desideravo proprio una confezione di resilienza!” Se infatti l’ideale partigiano, per tornare alla radice dura e originaria del concetto, va immaginato ritto in piedi, mantello al vento della determinazione, mitra “Sten” in pugno, come nella statua di Marino Mazzacurati, memoria e gloria esattamente della Resistenza, che campeggia sul prato di piazza della Pace a Parma, il resiliente al contrario va intuito, forse, in accappatoio o kimono, munito di una semplice tazza di caffè corretto al ginseng?

In breve, comunque la si veda, resilienza resta un concetto anodino, inutile che adesso arrivi l’esperto di social a suggerirne il significato così come appare su Tik Tok o la fanzine olistica. Se, come ha spiegato un documentario curato da un attento storico, la celebrazione dunque il concetto stesso di Resistenza nel tempo si è visto depotenziato, cercando di andare oltre il volto di un Corbari interpretato da Giuliano Gemma o dello stesso Giuseppe Albano detto “il Gobbo del Quarticciolo”, se tutto questo poteva sembrare eccessivamente impegnativo, la resilienza dovrebbe diversamente permettere a chiunque di sedersi in ogni genere di luogo senza veri ingombri interiori; la sensazione è che questa cosa, la resilienza, serva a stabilire un concetto ulteriore, un po’ come immaginare assai liberatorio l’arrivo di un Matteo Renzi rispetto ai vari Bakunin e Marx, e forse perfino Garibaldi e Mazzini.

Resilienza, parola che mai invece utilizzerebbero quelli di Comunione e Liberazione, per citare dei maestri nel trovare titoli-concetti irresistibili per i loro meeting riminesi. Resilienza come un pensiero turistico, diportistico che elimini ogni picco, un pensiero per ceti medi, di più, criceti medi: “… come ti senti, amore?” “Sai, ho un po’ di resilienza”, come già la contessa con il maggiordomo Ambrogio, lei che “la mia non è proprio fame, ma voglia di qualcosa di buono”. O ancora, restando nell’ambito pubblicitario, come la bevanda che affermava la “forza dei nervi distesi”, molto meno della “Forza tranquilla” (“La Force Tranquille”) che il maestro della comunicazione pubblicitaria Jacques Séguéla escogitò per la campagna presidenziale di Mitterrand nel 1981. Un’immagine da buonanotte al pensiero stesso. “Come hai dormito stanotte?” “Ho avuto un po’ di resilienza”. “Dai, non mi dire, anch’io”.

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Fulvio Abbate è nato nel 1956 e vive a Roma. Scrittore, tra i suoi romanzi “Zero maggio a Palermo” (1990), “Oggi è un secolo” (1992), “Dopo l’estate” (1995), “Teledurruti” (2002), “Quando è la rivoluzione” (2008), “Intanto anche dicembre è passato” (2013), "La peste nuova" (2020). E ancora, tra l'altro, ha pubblicato, “Il ministro anarchico” (2004), “Sul conformismo di sinistra” (2005), “Roma vista controvento” (2015), “LOve. Discorso generale sull'amore” (2018), "Quando c'era Pasolini" (2022). Nel 2013 ha ricevuto il Premio della satira politica di Forte dei Marmi. Teledurruti è il suo canale su YouTube. Il suo profilo Twitter @fulvioabbate