Enrico Berlinguer ci parla ancora. Con tutte le sfumature e le cautele del caso. Berlinguer e non solo lui, a dirla tutta. Da quando è esploso il caso del Qatargate si è tornato a parlare di “Questione Morale”, un’espressione che ha indicato, dalla sua affermazione nel dibattito negli anni Settanta, la necessità che i partiti tornassero a principi di onestà e correttezza nella gestione delle istituzioni, dei poteri dello Stato e del denaro pubblico. Il segretario del Partito Comunista Berlinguer ne parlò in questi termini in una direzione straordinaria di partito: “La ‘questione morale’ è divenuta oggi la questione nazionale più importante”. E sul tema ritornò in un’intervista rilasciata ad Eugenio Scalfari per La Repubblica. Come spiegò anni dopo in un editoriale su L’Espresso lo stesso Scalfari, Berlinguer con quell’espressione si riferiva a “l’occupazione delle istituzioni da parte dei partiti”. Il segretario comunista disse che era “necessario difendere le istituzioni dalla partitocrazia che le ha invase”.

La “Questione Morale” entrò nel dibattito politico il 27 novembre del 1980, a pochi giorni dal terremoto che colpì l’Irpinia, in una riunione straordinaria del Partito Comunista Italiano a Salerno. Il segretario Berlinguer tenne un discorso diventato emblematico e chiuse definitivamente la stagione del compromesso storico con la Democrazia Cristiana. L’espressione era stata già utilizzata da Giuseppe Mazzini in uno scritto del 1886 e da Pietro Ingrao in un intervento sul quotidiano sul caso di Wilma Montesi, la ragazza 21enne trovata in spiaggia a Torvajanica nel 1953.

Berlinguer riadattò quell’espressione in un’Italia profondamente cambiata. Gli Anni di Piombo, la lottizzazione del potere, il Manuale Cencelli, lo “scandalo Lockheed”, il sequestro e l’omicidio di Aldo Moro. Alle elezioni politiche del giugno 1976 il Pci aveva ottenuto il suo massimo storico, 34,4%, che comunque non bastò a superare la Dc, al 38,7%. Gli accordi portarono a un governo monocolore, della Dc, e a Pietro Ingrao Presidente della Camera. La crisi di governo esplosa tra fine 1977 e inizio 1978 portò a un quarto esecutivo Andreotti, con il voto favorevole dei comunisti tramite “appoggio esterno”.

Berlinguer ruppe quel patto dopo il terremoto che colpì l’Irpinia il 23 novembre del 1980. A Salerno, in quella riunione straordinaria, il segretario nel suo discorso parlò delle “risposte deludenti e negative del governo di fronte alla catena di scandali, di deviazioni negli apparati dello Stato e di intrighi di potere” che “chiama in causa non semplicemente le responsabilità di uno o più ministri, o dell’attuale governo, ma un sistema di potere, una concezione e un metodo di governo che hanno generato di continuo inefficienze e confusioni nel funzionamento degli organi dello Stato, corruttele e scandali nella vita dei partiti governativi, omertà e impunità per i responsabili. La questione morale è divenuta oggi la questione nazionale più importante”.

Qualche giorno dopo Berlinguer rilasciava un’intervista ad Alfredo Reichlin per L’Unità, in cui descriveva il cambio di passo dal compromesso storico. “Mi fanno un po’ sorridere tutti questi becchini del ‘compromesso storico’. Perché sarebbe fallito? È fallita la caricatura che ne hanno fatto presentandolo come una pura formula di governo: peggio, come un accordo di potere tra noi e la DC. L’abbiamo detto cento volte che non era questo, bensì la ricerca di una convergenza tra le componenti diverse della storia italiana, della società nazionale, anche, quindi, tra classi diverse, tale da rendere possibile una profonda trasformazione democratica (un secondo 1945, si è detto) nel rispetto del pluralismo e della Costituzione repubblicana”. Il segretario comunista nella stessa (da enricoberlinguer.it) avvertiva, in merito al sisma in Irpinia, che “il problema più grave non sarà il reperimento delle risorse da destinare al Sud, ma il loro impiego: a quale fine, attraverso quali strumenti, con quali garanzie che non si ripeterà un Belice moltiplicato per cento, con quali forme di partecipazione popolare e di controllo democratico? E con quali mezzi di prevenzione e di repressione dell’assalto clientelare e mafioso alla greppia degli stanziamenti pubblici?”.

Qualche mese dopo, il 28 luglio del 1981, Berlinguer rilasciava una lunga intervista, entrata nella storia, a Eugenio Scalfari in cui esordiva senza mezzi termini: “I partiti hanno degenerato e questa è l’origine dei malanni d’Italia”. Alla degenerazione dei partiti – “hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai TV, alcuni grandi giornali” – il segretario comunista riconduceva le radici della crisi italiana. “Per noi comunisti la passione non è finita. Ma per gli altri? Non voglio dar giudizi e mettere il piede in casa altrui, ma i fatti ci sono e sono sotto gli occhi di tutti. I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello, e non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l’iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un ‘boss’ e dei ‘sotto-boss’. La carta geopolitica dei partiti è fatta di nomi e di luoghi. Per la DC: Bisaglia in Veneto, Gava in Campania, Lattanzio in Puglia, Andreotti nel Lazio, De Mita ad Avellino, Gaspari in Abruzzo, Forlani nelle Marche e così via. Ma per i socialisti, più o meno, è lo stesso e per i socialdemocratici peggio ancora …”.

Un passaggio sull’atteggiamento dei cittadini in merito: “Molti italiani, secondo me, si accorgono benissimo del mercimonio che si fa dello Stato, delle sopraffazioni, dei favoritismi, delle discriminazioni. Ma gran parte di loro è sotto ricatto. Hanno ricevuto vantaggi (magari dovuti, ma ottenuti solo attraverso i canali dei partiti e delle loro correnti) o sperano di riceverne, o temono di non riceverne più. Vuole una conferma di quanto dico? Confronti il voto che gli italiani hanno dato in occasione dei referendum e quello delle normali elezioni politiche e amministrative. Il voto ai referendum non comporta favori, non coinvolge rapporti clientelari, non mette in gioco e non mobilita candidati e interessi privati o di un gruppo o di parte. È un voto assolutamente libero da questo genere di condizionamenti. Ebbene, sia nel ’74 per il divorzio, sia, ancor di più, nell’81 per l’aborto, gli italiani hanno fornito l’immagine di un paese liberissimo e moderno, hanno dato un voto di progresso. Al nord come al sud, nelle città come nelle campagne, nei quartieri borghesi come in quelli operai e proletari. Nelle elezioni politiche e amministrative il quadro cambia, anche a distanza di poche settimane”.

Berlinguer fu criticato, accusato per aver messo in alcuni passaggi il Pci al di sopra degli altri partiti da un punto di vista morale. “La questione morale, nell’Italia d’oggi, fa tutt’uno con l’occupazione dello stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt’uno con la guerra per bande, fa tutt’uno con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semplicemente abbandonati e superati. Ecco perché dico che la questione morale è il centro del problema italiano. Ecco perché gli altri partiti possono provare d’essere forze di serio rinnovamento soltanto se aggrediscono in pieno la questione morale andando alle sue cause politiche”. Le posizioni di Berlinguer raccolsero ostilità tuttavia anche all’interno dello stesso partito. E da esponenti autorevoli come Giorgio Napolitano e Alessandro Natta. Il segretario comunista ribadì i suoi concetti fino all’ultimo, fino all’ultima sua intervista televisiva rilasciata poche ore prima il malore che lo colpì mortalmente durante il comizio di Padova del 7 giugno 1984.

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