Cosa ha stupito nella scoperta del carteggio tra l’ex capo dello Stato Francesco Cossiga e alcuni ex militanti armati, definiti abitualmente (per una convenzione alla quale Cossiga non si uniformava) “ex terroristi”? Non certo l’esistenza del carteggio stesso. Ci sono altri casi di scambi di lettere, per esempio, tra ex brigatisti e parenti delle vittime o con celebri giornalisti come Giorgio Bocca o Rossana Rossanda, ma non con esponenti politici. Tuttavia l’interesse dell’ex ministro degli Interni, ex premier, ex presidente della Repubblica a dialogare e anche incontrare i nemici vinti era notissimo. Neppure sorprendono i toni degli ex brigatisti e autonomi che si erano proposti l’attacco al cuore dello Stato, o comunque la distruzione dello stesso. Negri che, dandosi del tu con l’ex presidente come si conviene a un accademico comunque di chiarissima e internazionale fama, chiede una spintarella per poter andare in vacanza. Curcio che esalta l’impatto profondissimo della stretta di mano con il democristiano che non moltissimi anni prima lui, e in realtà tutto il movimento armato o meno degli anni ‘70, avevano considerato il nemico numero uno: Kossiga con tanto di K.

Nei frangenti dati, quelle esagerazioni, quelle iperboli, quelle sbavature sono non solo comprensibili ma inevitabili: nell’ordine delle cose.
No, quello che a distanza di anni ha lasciato molti sbigottiti, e che avrebbe suscitato fragoroso scandalo se le lettere fossero state rese note nel momento in cui furono scritte, agli inizi degli anni ‘90, è il tono di profondo rispetto che Cossiga adopera. Dialogare con gli ex terroristi, spingerli a riconoscere i loro errori, recuperarli alla vita civile, soprattutto indurre pentimento, inteso non nell’accezione delatoria ma in quella morale del termine, tutto questo andava e va benissimo. È anzi meritorio. Segnala e sottolinea la superiorità morale tra la Repubblica e i suoi nemici. Cossiga, cioè il leader politico che più di ogni altro aveva fronteggiato l’emergenza armata, spezza questa visione unanime. Dice apertamente quel che non si poteva e non si doveva dire ai tempi del sequestro Moro e non si è più potuto dire in seguito: che da una parte c’era lo Stato democratico ma dall’altra non c’erano pazzi sanguinari, folli che inseguivano una chimera nefasta, mostri che possono solo emendarsi riconoscendo la loro turpe follia.

C’era un movimento rivoluzionario che va inscritto a tutti gli effetti nella storia dei movimenti rivoluzionari del secolo scorso. C’erano giovani e giovanissimi che mettevano in gioco la pelle e accettavano la certezza di passare buona parte della vita in galera per un’idea politica. C’erano gruppi formati non da nihilisti col culto dell’azione fine a se stessa ma da operai rivoluzionari e comunisti formatisi nel ciclo di lotte operaie, senza pari nell’occidente post-bellico, dell’Italia degli anni ‘70. Tutto ciò era evidente già all’epoca dei fatti, e lo aveva indicato con lucidità estrema, già nel corso dei 55 giorni della prigionia di Moro, Rossana Rossanda, in un famoso articolo sull’ “album di famiglia” nel quale si spingeva anche oltre, riconoscendo le affinità tra la principale organizzazione armata, le Br, e la cultura del Pci nei decenni precedenti.
Le ricerche storiche e sociologiche hanno da allora puntualmente confermato. E tuttavia quel dato di realtà non poteva essere riconosciuto dalla politica.

I “terroristi” dovevano essere inscritti nelle categorie del crimine comune o della follia sanguinaria e questo obbligo si dimostrò tanto tassativo da spingere il Palazzo, e la stampa tutta, a sacrificare Aldo Moro pur di non concedere ai suoi rapitori quel “riconoscimento politico” che lo avrebbe probabilmente salvato. Cossiga, come il Moro prigioniero e probabilmente anche in conseguenza della scelta bugiarda fatta allora, straccia questa narrazione falsa e falsificante. Tratta gli ex terroristi con rispetto. Il che, sia chiaro, non significa affatto dargli ragione. Né lui né lo stesso Moro si espongono mai all’accusa di dar ragione, anche solo parzialmente, al movimento armato. Cossiga non rinnega mai la sua posizione di allora. Non smette mai di considerare la lotta armata un nemico che lo Stato democratico aveva il dovere di fronteggiare. Un nemico, però, dotato della sua dignità. Un nemico che si poteva e doveva combattere ma anche rispettare.

Lo Stato italiano ha fatto una scelta diversa. Si è comportato, nei fatti, con la piena consapevolezza di quale fosse la realtà. Si è adoperato, a emergenza conclusa e lotta armata sconfitta, per liberare i nemici vinti. A patto però di non doverne mai riconoscere la dignità politica.
Quando Cossiga si scambiava lettere con gli uomini e le donne a cui lui stesso aveva dato la caccia, all’inizio dei ‘90, sembrava possibile superare davvero quella fase storica, restituendole anche nel discorso pubblico i suoi caratteri reali. Non solo Cossiga ma anche Pecchioli, il “ministro degli Interni” del Pci all’epoca del sequestro Moro, e molti democristiani erano favorevoli a un’amnistia.

Ha invece prevalso una linea di continuità assoluta con la versione imposta all’epoca dei fatti. La verità di Cossiga è stata sbrigativamente fatta passare per stranezza, eccentricità, frutto di depressione e sensi di colpa mai davvero superati per la morte del prigioniero di via Montalcini. Cossiga è stato fatto passare per pazzo. Proprio come era capitato ad Aldo Moro nei 55 giorni della sua prigionia.