L'intervento
Signorile e l’ombra ingiusta su Cossiga: voleva Moro libero, ma era marcato da servizi russi e americani

Caro Sansonetti, ho inviato al Direttore del Corsera la lettera che allego. Scritta per un’irresistibile reazione all’intervista fatta da Veltroni a Claudio Signorile. Che anche il Psi fosse per la trattativa mentre Cossiga ciurlava nel manico è un falso inaccettabile. Lo conferma il ricordo personale proprio di quella mattina nella quale, come spesso accadeva, mi ero ritrovato un po’ prima delle 8 alla buvette della Camera per un caffè. La mia impressione, indelebile, è quella che nella forma indiretta dalla testimonianza rendo nella lettera. Sarei lieto se Il Riformista la pubblicasse come lettera non pubblicata dal direttore Fontana. Dopo dieci giorni, mi sembra più che legittima l’ospitalità sull’unico quotidiano libero che rimane nella libera e democratica Italia. In ogni caso, grazie. Un cordiale saluto. Calogero Mannino
Illustre Direttore, leggendo l’interessante intervista di Veltroni a Claudio Signorile vengo indotto a fare qualche osservazione e riprendere qualche ricordo non soltanto per la memoria viva di un vissuto come parlamentare della Dc, ma per le ragioni di una consuetudine di amicizia mantenuta con il presidente Cossiga fino alla Sua morte. Perciò vorrei dire quel che penso sull’invito di Cossiga al Viminale per un caffè, proprio il 9 maggio del 1978, così come è stato narrato. Signorile si chiese il perché dell’invito, e ripropone ancora oggi la prima risposta che si diede allora. «Penso: forse lui ha la notizia che l’hanno liberato o lo stanno liberando. Sennò, perché mi ha chiamato? Fa in maniera che io sia lì quando si apprende di via Caetani». Ma in ragione della tragica conclusione del sequestro dell’onorevole Moro proprio quella mattina, l’intervistato fa seguire una suggestione, non accompagnata da fondamento di prova politica, sul ruolo di Cossiga in quella vicenda e nelle successive vicende politiche.
Ogni suggestione che la memoria riprende dopo tanto tempo, per di più attualizzata al fine del presente politico, può anche smarrire le ragioni della verità. E così, proprio contro la verità viene proiettata sulla figura di Cossiga un’ombra che non merita, quindi ingiusta.
A riprova sta il fatto che otto anni dopo il 1978, nel 1986, Cossiga viene eletto presidente della Repubblica – in presa diretta – come mai avvenuto prima, a larga maggioranza con il consenso tempestivo sulla sua candidatura del Pci, come risulta da sempre nelle narrazioni di De Mita, segretario nazionale della Dc. Il consenso del Pci era stato seguito dal sì di Craxi, a quel tempo già segretario del Psi dopo il Midas. Allora rimane da chiarire il fine dell’invito a prendere il caffè, quella mattina. Signorile racconta che all’annuncio del ritrovamento della salma di Moro in via Caetani Cossiga rimase molto turbato ed addolorato. Sbiancò ed annunciò subito le sue dimissioni. Cosa che avvenne già quel giorno.
Ed allora, non si può immaginare come logico e vero che Cossiga, pensando a un insuccesso dei tentativi di liberare Moro, si facesse fare compagnia da Signorile. Il quale racconta, ancora oggi, che aveva anche convinto dell’iniziativa di trattativa l’onorevole Amintore Fanfani, presidente della Democrazia Cristiana, che a sua volta, proprio per questo, aveva convocato la Direzione del partito per quel giorno. Quindi l’iniziativa di Signorile aveva sortito un risultato.Cossiga ne era consapevole e a maggiore ragione si deve ritenere che del successo dell’iniziativa era speranzoso, nonostante conoscesse le forti divisioni dell’area di sinistra nella quale avevano consolidato la propria iniziativa le brigate rosse con la marginalizzazione proprio di quei gruppi ai quali facevano riferimento Pace e Piperno. Basti ricordare la felice e onesta definizione “dell’album di famiglia” data dall’onorevole Rossana Rossanda a commento di quella storia.
Anche dopo, narrato l’episodio dell’intercettazione telefonica che lo aveva riguardato e per la quale il presidente Cossiga lo chiama, Signorile si chiede perché Piperno e Pace non fossero mai stati pedinati al tempo dei loro approcci con Moretti (?). Forse che Signorile sperava che invece lo fossero? Ma la trattativa affidata ai due sarebbe fallita, come poi di fatto è avvenuto, senza la certezza di giungere al risultato della liberazione di Moro, e questo Cossiga non lo voleva anche se Signorile può ricordare chi non volesse la sua iniziativa e la contrastasse.
Di conseguenza vorrei sollevare un dubbio, nel caso a Claudio non fosse mai venuto. Del ministro degli Interni – stretto dall’assedio di tanti controlli e di tanti controlli dei suoi movimenti – il quadro è sufficientemente ma non completamente descritto nell’intervista. Forse – soltanto forse – cercava di coprire il tentativo dei due mediatori e forse voleva in cuor suo che riuscissero. Il punto fermo è che l’iniziativa della trattativa con le Brigate Rosse non poteva essere assunta direttamente, e non dal Governo. Signorile spiega bene il comportamento che Andreotti è costretto dalle circostanze politiche a tenere. A maggior ragione vi è tenuto Cossiga, che era accerchiato e aveva in una stanza accanto alla sua il consulente americano Steve Pieczenik e in un’altra, sempre accanto, l’onorevole Pecchioli, dirigente di un importante Ufficio del Partito Comunista. Tutto accadeva al Viminale, dove c’era poi l’apparato dello Stato, compresa, sia pure nel suo palazzo, la Procura della Repubblica.
Ora non scavo nel merito della assoluta rigidità della posizione del Pci di Berlinguer in questa vicenda. Non soltanto perché bisogna rammentare che la costante della linea politica del Pci, e del comunismo, è stato un fermo criterio politico: “Nessun nemico a sinistra”. Che nel caso si traduceva nella sconfitta dell’autonomia del Pci da Mosca. Perciò la posizione era intransigente, come lo era stata nel silenzio pubblico sull’attentato subito da Berlinguer a Bucarest qualche tempo prima. Ne fa fede sul piano politico il silenzio di Zaccagnini in quell’incontro con il Psi, che tanto colpisce, ancora oggi, Claudio Signorile.
Ed allora penso che a Cossiga – che dall’assassinio di Moro ha riportato la ferita più grave di tutta la sua vita fino alla fine, personale ed intima ma anche politica pur nel riconoscimento delle alte responsabilità alle quali venne chiamato da un largo larghissimo voto del Parlamento – non rimanesse, in quelle circostanze, che sperare nel miracolo fino in fondo. ”Spescontra spem, speravi”. E andava bene che ci fosse una trattativa – quella di Signorile, che forse ne copriva un’altra. La mattina del 9 maggio vi furono due delusi e due sconfitti: Francesco Cossiga, che non aveva potuto o saputo liberare Moro dal carcere con un’azione di polizia, e Paolo VI che aveva tentato l’impossibile, come dice con voce rotta dalla commozione nel discorso alla S.Messa di requiem in San Giovanni. Lo spartito musicale in via Caetani non era stato suonato con le giuste note.
Il sequestro Moro ha una certezza: fu compiuto dalle Brigate rosse. E un’altra ancora: l’arma Scorpion di produzione cecoslovacca. Se si vuole mettere a carico della incertezza della Dc, stretta dalla intransigente rigidità del Pci, l’esito tragico finale, bisogna anche dire che l’assassinio di Moro ha annunciato la fine della Dc. Così nonostante la caduta del muro di Berlino, la nebbia rimane fitta e tenebrosa, mai definitivamente diradata da processi giudiziari e dalle relazioni delle diverse Commissioni Parlamentari di indagine, pure molto rilevanti come da pregevoli lavori storiografici.
Forse “L’Affaire Moro” di Leonardo Sciascia potrebbe ancora aiutare a tenere desta nella giusta direzione l’esigenza di comprendere e conoscere storicamente quel fatto e quelle circostanze. Credo che questa mia opinione, anche in ragione dell’importanza dell’intervista fatta da Veltroni, possa trovare ospitalità nelle colonne di un giornale di grande tradizione politica e culturale, nel segno della libertà di pensiero.
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