Si può ritenere scongiurato il rischio di guerra nel cuore dell’Europa? Alla vigilia di un potenziale invasione russa dell’Ucraina, che fonti americane hanno fissato alla data del 16 febbraio, dunque oggi, mentre la diplomazia del Cremlino, playing cat and mouse, ha annunciato l’inizio del ripiegamento delle sue truppe, la situazione rimane fluida, confusa e soprattutto irrisolta. Di sicuro, tuttavia, intorno allo scenario ucraino si sta giocando una partita complessa, dove per troppo tempo gli attori in campo hanno scelto di non scegliere, rimanendo spettatori inerti di un progressivo deterioramento, sottraendosi alla responsabilità di pagarne il conto.

L’Ucraina sul confine tra Occidente e Russia è diventata suo malgrado il territorio dove finalmente si dovranno regolare i conti tra Mosca e le capitali europee, oltre che tra Mosca e Washington, con un gigante sullo sfondo, che si chiama Cina, nella necessità di definire una nuova politica di relazioni internazionali in ambito europeo e più in generale nei rapporti tra le super potenze dell’Atlantico e del Pacifico, decidendo se si debba continuare con la logica dello scontro oppure perseguire la ricerca di nuovi assetti possibili. Giusto otto anni fa, la piazza di Kiev al grido di “Jevromajdan” urlava il suo desiderio di sottrarsi all’abbraccio mortale del revanscismo moscovita, chiedendo di avvicinarsi all’Europa. Accadeva proprio mentre i popoli europei esprimevano come non mai disaffezione e disincanto verso la politica di Bruxelles. Era tuttavia la posizione di una parte dell’Ucraina, quella occidentale, mentre ad est e nel sud, regioni dove si parla russo, si mangia russo, si vive dell’economia russa, in un contesto di repubbliche separatiste, quali il Donec’k e il Luhans’k, si accentuava la spinta verso Mosca.

Non passò molto tempo dalle manifestazioni di Kiev, che uomini armati in uniforme, ma senza alcuna insegna ufficiale, occupassero strutture chiavi e check-point in Crimea, sul confine sud, oramai una penisola semi-autonoma, perché sotto la giurisdizione ucraina, poco più estesa della Sicilia, da sempre strategica tra il Mar d’Azov e il Mar Nero, passata di mano tante volte fino al 1991, quando il presidente Cruscev, che di radice era ucraino, nel disfacimento dell’impero sovietico, la regalò al suo paese. E poco dopo, i russi entrarono nel Donbass, nell’Ucraina orientale, dove il conflitto è tuttora è in corso. Una guerra a bassa intensità, in una dimensione ibrida ovvero giocata con approcci convenzionali e non, occulti e manifesti, territorio di cyber-sfide e di bande mercenarie. Sul piano politico, in quel inizio di primavera del 2014, l’effetto fu giusto la fuga del presidente filorusso Yanukovic, l’avvio di una fase di instabilità e i passi di un faticoso negoziato per definire l’assetto regionale, sfociato negli Accordi di Minsk del successivo autunno, con due Protocolli.

Il primo tra la Russia, l’Ucraina e le repubbliche indipendentiste orientali, sotto l’egida dell’Osce, l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa. Il secondo, che vedeva tra i firmatari anche la Francia e la Germania, oltre alla Russia e all’Ucraina. Entrambi i protocolli non sono stati mai rispettati. L’Europa in pratica è rimasta a guardare. Davanti ad un paese destabilizzato, non ha offerto risposte. La guerra a bassa intensità in questi otto anni ha provocato migliaia di vittime, oltre un milione e mezzo di sfollati, un’emigrazione di massa, che ha riguardato soprattutto la popolazione più istruita, impoverendo demograficamente un paese di oltre mezzo milione di chilometri quadrati, già sottopopolato e in una condizione di corruzione esasperata. Non è stata neanche calcolata la particolare suscettibilità russa e il valore della sua identità, con il sottostante progetto di un’unità euroasiatica, che esprime tra l’altro, a volerlo considerare, il desiderio di diventare a pieno titolo interlocutore dell’Europa.

Dall’Occidente, però sono arrivate armi e soldi. Soldi in dollari ed in euro, insufficienti però a ripianare l’abisso del debito pubblico ucraino, che invece la Russia si era offerta di accollarsi, ragionando di un piano articolato di investimenti. E le pianure ucraine, pur se spazzate dal vento e dalla neve, sono un enorme territorio aperto agli investimenti agricoli, percorsi da fiumi poderosi, che irrigano terreni tra i più fertili del mondo. Non a caso la Cina ha già comprato milioni di ettari ed ha cominciato ad esportarvi manodopera in eccedenza. Le infrastrutture sono obsolete, non c’è nulla che somigli ad un’economia agricola di nuova generazione nel rispetto dell’ambiente, ma sono appunto investimenti che si possono fare, creando sviluppo. In pratica, si sta ripetendo nel cuore dell’Europa quanto è già accaduto in Africa. Ovvero la filosofia del “land grabbing”, l’accaparramento di terre e di risorse, nell’indifferenza ai sistemi politici con cui la Cina commercia. Un business colossale, perfino superiore all’industria pesante in cui l’Ucraina un tempo vantava il primato. Inoltre, attraverso il territorio ucraino passano i gasdotti, che portano in occidente almeno il 40% del gas russo.

Venendo alla cronaca più recente, la richiesta dell’Ucraina di entrare nella Nato, già formulata nel lontano 2008, al momento non ha alcuna possibilità di realizzarsi e non solo per l’opposizione russa. Sono di avviso contrario in Europa anche la Francia e la Germania, sulla stessa linea la Farnesina. Del resto, il cancelliere Sholz nel suo incontro a Kiev con il presidente Zalens’skj, lo ha detto chiaro e forte: «L’adesione dell’Ucraina alla Nato non è in agenda». Ma per Vladimir Putin è arrivato il momento di mettere nero su bianco quello che era stato l’accordo, mai scritto, tra Gorbaciov e l’Occidente, dopo la caduta del muro di Berlino, che avrebbe poi portato all’assenso russo all’unificazione della Germania e alla successiva marginalità di Mosca sulla scena politica internazionale. Il capo del Cremlino lo ha ribadito nelle ultime ore nell’incontro con il cancelliere Sholz. Ciascuno deve riprendere il suo posto. La Russia difende la sua sicurezza, il suo ruolo, le sue ambizioni.

Quanto agli americani, se è vero che nella crisi ucraina l’Amministrazione Biden non avrebbe mai voluto entrarci, consapevole dei rischi, anche sul piano interno, è altrettanto vero, che dopo il disastro in Afghanistan, il presidente non può permettersi di venire accusato di debolezza o di farsi trovare impreparato, a costo di apparire allarmista. Da qui, il ripiegamento preventivo dell’ambasciata a Leopoli e l’invito ai cittadini americani a lasciare l’Ucraina. È bastata Kabul, Kiev non può diventare la riedizione di quella sciagurata fuga. Si aggiunge poi una ragione di principio, che azzardando si potrebbe chiamare etica, ovvero il rispetto dell’autonomia e dell’autodeterminazione dei popoli: la democrazia liberale ucraina ha diritto a tracciare il suo futuro.

Una ragione non solo nei confronti della Russia, ma che vale per il resto del mondo e che gli Stati Uniti hanno ribadito all’ultimo vertice Nato in Europa, nel giugno dello scorso anno. È’ il principio che identifica l’Occidente e il suo modello ideologico: oggi vale per l’Ucraina, domani per Taiwan. Le frenetiche attività diplomatiche per scongiurare il peggio, stanno riportando comunque in primo piano il ruolo dell’Europa, già che una guerra nel nostro continente sarebbe assolutamente disastrosa per tutti e da ogni punto di vista. Oltre che, va sottolineato, francamente, incomprensibile. Nella necessità del cambiamento, che la crisi ucraina rappresenta, non è più differibile il senso di un’Unione Europea, protagonista unitaria nelle sfide di oggi e di domani.