Le primarie del Pd e lo stato del sistema dei partiti. Il Riformista ne discute con Sergio Fabbrini, professore ordinario di Scienza Politica e Relazioni Internazionali e Direttore del Dipartimento di Scienze Politiche presso la Luiss Guido Carli, tra gli studiosi dei sistemi politici e istituzionali più autorevoli e affermati a livello internazionale.

Alle primarie del Partito democratico, che hanno “incoronato” Elly Schlein a segretaria, hanno partecipato un milione e 100mila cittadini-elettori. Che cosa racconta questo dato per il nostro sistema democratico fondato sui partiti?
Mi sembra che ci sia un trend nella democrazia italiana, soprattutto nel ceto politico ma anche negli elettori, verso la politica dell’identità. A me pare che questo sia il paradigma dominante, lo chiamerei il “paradigma Meloni”. Emergono dalle competizioni sia elettorali nazionali che all’interno dei partiti, dei leader specializzati nella gestione dell’identità politica, dell’identità di partito. È un processo non solo italiano, è avvenuto in altri paesi tra i quali gli Stati Uniti, e consiste nella trasformazione dei partiti in agenzie identitarie. I leader sono degli specialisti, più o meno efficaci, nel presidiare la differenza e nel radicalizzare l’identità. Da questo punto di vista, il successo di Schlein è in continuità con quello che chiamavo il “paradigma Meloni”. Afferma la differenza della sinistra, la mette in una collocazione che è difficilmente inquinabile da altre culture e trasforma alcuni principi della sinistra in una vera e propria religione politica.

Può bastare per ridefinire una proposta politica?
La giustizia sociale, così come Schlein l‘ha declinata nella campagna elettorale per le primarie, è una sorta di religione laica. Non esiste una cultura di governo. S’insiste sulla richiesta redistributiva senza mai accompagnarla con una visione di come e di dove derivare le risorse per avanzare la politica redistributiva. È il punto di vista di quel ceto politico ma anche di elettorato, soprattutto nelle grandi città del nord, che vuole riconoscersi, che vuole essere rassicurato nell’identità. Torno sul“paradigma Meloni” perché, quello della neo segretaria Pd, non è diverso dal compimento a del percorso che ha portato Fratelli d’Italia, dall’essere un piccolo partito, altamente identitario, del 4% a diventare il maggiore partito della destra. Prima definiamo fortemente chi siamo e quindi presidio la differenza rispetto alle altre forze politiche. Questo “paradigma Meloni”, della politica come identità, che ora diventa anche il “paradigma Schlein”, quando poi deve fare i conti con la realtà si trova in profonde difficoltà.

Una cosa è la campagna elettorale, un’altra è governare.
Esatto. Quando Meloni va al governo scopre che vincere le elezioni e governare sono due attività distinte. Si trova a governare dentro un ambito molto strutturato, definito dalle politiche di bilancio dell’unione economica monetaria e più in generale del Pnrr, deciso, concordato, negoziato tra l’Italia e la Commissione europea. In qualche modo Meloni scopre che l’identità non serve, anzi si trova isolata in Europa ed è costretta ad operare all’interno di guidelines che sono state definite in precedenza. Di qui il grande pragmatismo del governo attuale che per fortuna dell’Italia non ci ha portato fuori da quell’equilibrio europeo in cui rischiavamo di finire, invece, con il primo governo Conte dopo le elezioni del 2018. Questo contrasto tra l’identità e la realtà vale anche per Elly Schlein.

Quali sono i nodi principali che la nuova segretaria del Pd, da questo punto di vista, deve affrontare?
L’Ucraina. Quale sarà la posizione del “nuovo Pd”? Sarà una posizione neutralista, una posizione pacifista, una posizione ambigua? Ed ancora. Quale modello di crescita vorrà sostenere in Parlamento? Sosterrà il Pnrr che viene utilizzato per fare grandi investimenti tecnologici e di riconversione industriale oppure quello che si vorrebbe è un Pnrr che si limiti a dare soddisfazione a gruppi, interessi, clientele? Schlein dovrà fare i conti con i caratteri politici del suo fare opposizione. Temo che saranno dei conti non facili. La politica dell’identità è una politica necessariamente marginale. Al di là dei numeri che puoi ottenere in una primaria, è una politica culturalmente marginale. E qui c’è anche una debolezza più generale delle sfere intellettuali che circondano le politiche dell’identità, sia a destra che a sinistra. A destra il mondo degli intellettuali sembra essere preoccupato quasi esclusivamente di occupare posizioni, di creare una sorta di nuova egemonia di destra all’interno delle istituzioni culturali. Ma questa sfera intellettuale della destra non è sostenuta da un progetto. Si può anche ricorrere ad una lettura di destra di Gramsci ma bisogna avere un progetto per creare una egemonia. Qual è il progetto della destra sul piano culturale? Non lo si vede. Non può più ricorrere al progetto nazionalista in quanto i fatti lo hanno completamente smentito. Meloni è costretta anche oggi, di fronte alla tragica vicenda delle morti nel Crotonese, a invocare l’aiuto dell’Europa, ad affermare che ci vuole più Europa. Questa sfera intellettuale non può più ricorrere alla rielaborazione del progetto nazionalista, però non ha gli strumenti, la disponibilità, la competenza per capire cosa vuol dire oggi un progetto europeista da destra. L’unica cosa per uscire da queste difficoltà è occupare posizioni, mettere gli amici nostri nelle istituzioni culturali e così via. Una visione di corto respiro.

Gli intellettuali di sinistra: come li vede?
Anche a sinistra la sfera intellettuale è in grande difficoltà. Essa ha usato alcune parole d’ordine trasformandole in dogmi religiosi, tra cui la diseguaglianza, la giustizia sociale, l’identità di genere, il fatto che ognuno di noi sceglie cosa vuol essere. Questi caposaldi della sinistra sono stati trasformati in dogmi. Qual è la legislazione dei diritti civili che può consentire la crescita di quei diritti in una società in cui quei diritti non sono da tutti condivisi? Una cultura liberale sa che la crescita dei diritti di un gruppo identitario deve avvenire trovando degli equilibri con coloro che non hanno quella sensibilità. Una società non cresce attraverso spaccature e radicalizzazione. Cresce attraverso persuasioni, convinzioni. E credo che questa sia anche la lettura gramsciana. Occorre costruire un ordine del discorso che permetta ai diritti identitari di crescere. Occorre trovare delle mediazioni. La stessa cosa vale in particolare per i problemi legati alla diseguaglianza e alla giustizia sociale. Questo è un paese che non cresce. Un paese che ha una produttività tra le più basse in Europa. Come possiamo garantire una redistribuzione della ricchezza sociale ad esempio nelle regioni più svantaggiate o per i ceti più svantaggiati se non c’è un progetto per far crescere questo paese. E con quale legittimità la sinistra può difendere il reddito di cittadinanza se non avanza allo stesso tempo una proposta per la crescita economica e industriale del paese. E soprattutto dove mette tutto questo dentro l’Europa. Non vedo nella sfera intellettuale della sinistra un dibattito. Vedo solamente la riaffermazione dell’identità.

Gli elettori si riconoscono in questa politica dell’identità?
Con Schlein finalmente abbiamo “una di sinistra”, come con la Meloni, sul fronte opposto, si è sospirato abbiamo finalmente “una di destra”. E in mezzo? La società italiana è una società che è cresciuta, che è in evoluzione. In mezzo c’è una vastissima area di elettori che non hanno bisogno dell’identità. L’identità è fuori dalla loro prospettiva. Sono elettori che hanno bisogno di vedere dei problemi risolti, che vogliono che i loro figli rientrino dall’estero dove sono andati a cercare lavoro. La loro vera “identità” è come riportare in Italia 500mila giovani italiani che lavorano all’estero, qualificati, laureati da noi. È come far crescere le regioni del sud. Il problema dell’identità è un problema del ceto politico, non è un problema della società. Se questo centro vitale non trova una rappresentanza appropriata, la mia impressione è che l’Italia farà fatica ad andare avanti. Per fortuna abbiamo l’Europa che ci fa da guardrail. Gli altri corrono nella strada. Noi dobbiamo dire per fortuna che non usciamo dalla strada.

La guerra in Ucraina è un banco di prova anche per la tenuta del progetto europeo?
Per fortuna abbiamo un’America che per adesso riesce a tenere la barra sulla questione dell’Ucraina e della sicurezza, mentre l’Europa sbanda. Ma il problema della guerra in Ucraina deve avere una prospettiva europea, non solamente americana. Ma chi la porta avanti? Non certo l’Italia che oggi deve preoccuparsi di sopravvivere piuttosto che di dare una idea della vita politica dell’Europa. Se dovessi definire questa epoca italiana, direi che è l’epoca della Grande Confusione, con la “g” e la “c” maiuscole. Per fortuna la realtà riesce a piegare l’identità. Naturalmente sono consapevole che chi fa politica ha un grande problema identitario, ma nelle società tecnologicamente avanzate il problema della politica è soprattutto il problema del governo della complessità. Che vuol dire il governo di tanti interessi diversi, di tante esigenze diverse che fanno fatica a entrare in una unica identità. Questa è l’evoluzione che ancora manca alla sinistra come anche alla destra italiane.

In conclusione, professor Fabbrini, qual è lo stato di salute della nostra democrazia?
Ha due facce. Da un lato è uno stato di salute sufficiente, buono, se uso i voti che do ai miei studenti, perché con le elezioni del 25 Settembre siamo riusciti ad integrare anche la destra che non era stata parte del progetto di europeizzazione, andato avanti in particolare con il governo Draghi. Oggi nessun partito della destra può dire noi non siamo responsabili, perché adesso sono al governo. La democrazia ha saputo integrarli. La democrazia è vitale, forte, tiene. Dall’altra parte, però, questa stessa democrazia ha troppi punti non risolti. Ha un sistema istituzionale per molti aspetti indecoroso. Come eredità del populismo, abbiamo un bicameralismo che è stato lasciato intatto. Abbiamo diminuito il numero dei parlamentari, ma non abbiamo toccato le due Camere. Con il risultato che funziona una sorta di monocameralismo alternante: una legge viene approvata dalla Camera e il Senato mette solo il timbro e viceversa. Il populismo ci ha lasciato in eredità problemi pazzeschi che rendono la nostra Repubblica non adeguata per l’impegno che ha. Così il problema delle regioni. Ancora non abbiamo trovato un equilibrio tra i governi regionali e il governo nazionale. La discussione verte sulle spaccature del paese e non su come farlo funzionare meglio. E questo vale anche per i leader. Non possiamo andare avanti con leader che sono autorevoli al centro del governo, intendo il primo ministro, e sono deboli gli altri. La forza di Meloni è nella debolezza di Salvini e di Berlusconi. Al tempo stesso è la dissonanza registratasi sull’Ucraina all’interno del governo che rende il nostro paese poco credibile, poco serio. Ed è per questo che alla fine contiamo poco. E non si tratta di un incidente di percorso.

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.