Il senso delle primarie è presto detto. I passanti, stavolta mobilitati con una regia accorta, non c’è che dire, hanno comandato di chiudere i circoli. A cosa servono più questi luoghi obsoleti di militanza e discussione? I partecipanti alle lunghe code nei gazebo, spesso neppure elettori del Pd, hanno ordinato agli iscritti di togliere finalmente il disturbo. A che vale ormai la loro parola o volontà di scegliere una linea, una leadership? Una volta che la gara diventava a sovranità esterna, e quindi quasi tutta a gestione mediatica, il vincitore nei congressi territoriali era spacciato.
Un conto sono infatti gli iscritti che conservano riti, linguaggi ancora parzialmente autonomi dai media, altra cosa sono i passanti che si orientano sulla base delle sollecitazioni di La7, Repubblica, Domani ecc., cioè di fabbriche del consenso alla perenne ricerca del “nuovo”. In tempi di storytelling, non poteva funzionare la narrazione del figlio del camionista e dell’operaia, militanti antichi comunisti, che conquistava la guida del partito. Attirava molto di più il racconto della rampolla della buona borghesia cosmopolitica, nipote del grande avvocato messo da Berlusconi al Csm per il suo frizzante antigiustizialismo, che dopo le origini protestatarie in difesa del Prodi tradito occupava davvero il Pd acciuffandone la segreteria. Damilano all’Espresso aveva sparato due copertine per lanciare una nuova leadership della sinistra.
Quella del sindacalista degli “invisibili” è finita male. Più fortunata si è rivelata invece la lunga tirata per Elly come pasionaria del “nuovo”, incarnazione vincente di un professionismo dell’anti-politica vagamente progressista. Lo schieramento massiccio delle forze dell’informazione, e non solo quindi l’apporto dei ceti politici in campo per non smobilitare, dava ben poche speranze a Bonaccini. Ai tanti sostenitori interni di Schlein (quasi tutti i segretari del Pci-Pds-Ds-Pd) bisogna riconoscere di aver compiuto un piccolo capolavoro politico. Un loro passo indietro, necessario per lasciare il palcoscenico per intero alla candidata venuta da fuori, per la quale ben funziona l’aureola della novità, e poco importa che da sempre sia nelle istituzioni, si è rivelato una felice trovata, che è servita per riconquistare gli spazi di comando.
Tutti i volti della batosta di settembre possono così ricomparire, non più come responsabili di una sconfitta storica ancora non analizzata, ma come i campioni del nuovismo che promettono la svolta salvifica dopo il diluvio. L’operazione del più vecchio che trionfa, esibendo la maschera luccicante del più nuovo, è la classica forma delle trovate ben congegnate del trasformismo. È andata ancora una volta alla grande per gli epigoni infiniti del Gattopardo. Ai complimenti dovuti a Boccia, Franceschini, Letta e altri per aver governato con astuzia l’eterno ritorno dell’eguale, bisogna però aggiungere anche una constatazione. Non sono loro i veri vincitori, al più possono giocare il ruolo delle ennesime vittime delle loro stesse macchinazioni.
Il risultato delle primarie è infatti enorme dal punto di vista storico-politico, rivelando i capicorrente solo come i semplici manovali, non i padroni effettivi, di un disegno più sottile di loro: si è realizzata, sotto la retorica della grande giornata di partecipazione democratica, la decomposizione di un partito. I passanti, dopo aver stracciato i risultati dei congressi, con una contro-rivoluzione hanno costruito un nuovo soggetto, quello antico non esiste più. Rimane, fino a quando?, solo un marchio, sempre utile per dispensare le candidature, che il talent show a uso e consumo mediatico ha dato in dono alla segretaria. Se non ancora ufficialmente, le parole ispirate al bon ton da parte di Bonaccini sono concilianti, di fatto però il Pd è stato scalato dall’esterno ed è quindi sciolto come organizzazione autonoma.
Non esiste al mondo infatti un partito che nella leadership non rappresenti la volontà sovrana degli iscritti. Schlein non ha vinto un semplice congresso, ha dato il volto a un processo costituente che ha fondato un nuovo partito, il quale però vaga come un corpo evanescente perché a decidere il trionfo sono state tante singole personalità che hanno votato con in bocca il ritornello “non ho mai votato alle primarie e sono distante anni luce dal Pd”, e però stavolta… Bastava guardare il volto, persino i vestiti delle persone delle affollate file nelle Ztl per cogliere una mutazione sociologica rispetto al profilo degli iscritti, tra i quali, oltre al partito degli eletti, c’erano anche gli ultimi segni di biografie più popolari. L’elettore tipo che ha ribaltato il risultato dei congressi è abitante in grandi città, di buon reddito e istruzione, benpensante e post-moderno.
Non ama perciò l’organizzazione, i lavori umili della militanza. Con un minuto soltanto del proprio tempo, andando al gazebo più vicino, poteva incidere sulla vita politica del paese, e ha afferrato al volo l’occasione. Il suo modo di pensare la politica non si forma nei luoghi di socializzazione partitica, deve molto del suo conformismo progressista ad alcuni giornali, alla rete e ai talk. E in questo mondo per Bonaccini davvero non c’è stata opportunità alcuna di penetrare. Questa volta hanno avuto un impatto significativo anche quotidiani a più limitata tiratura ed esterni al Pd. Il giorno delle primarie, persino un foglio che si dichiara “conservatore” come L’Identità a tutta pagina titolava “Hellyday” e consegnava a Livia Turco la penna per chiedere il voto al nuovo sempre più nuovo.
Lo stesso disegno di entrismo lo ha progettato il Manifesto, affidando la dichiarazione di voto a Barca, non iscritto al Pd e molto critico verso il Nazareno, e per questo ritenuto il traino ideale per indurre al voto un’area vicina a Conte che con “il sorpasso” insegue la ripresa del sogno giallorosso interrotto a gennaio 2021. Soprattutto un qualche impatto numerico lo ha sprigionato la dichiarazione entrista di una ospite televisiva che Lilli Gruber ha sollecitato sul punto proprio poche ore prima dell’apertura dei gazebo. Senza sussurrare parola, ha lasciato che dalla sua trasmissione, come cosa del tutto naturale, partisse l’irruzione di forze esterne nel congresso del Pd. Di fronte aveva addirittura la portavoce di un movimento politico che a settembre ha fornito indicazione di voto per Conte, e l’anno prima era capolista alle regionali calabresi per il partito di de Magistris, ma la Gruber sorrideva dinanzi alla sua esplicita invasione di campo.
Bastava semplicemente chiedere alla portavoce di Primavera democratica come riuscisse a conciliare, in maniera non mendace, la sua non appartenenza al Pd con la firma in calce alla formula prescritta dal Nazareno. Ai votanti, negli ingenui riti dei gazebo, si richiede infatti non solo di donare i due euro ma anche di sottoscrivere l’esplicita dichiarazione di “riconoscersi nella proposta politica del Partito, di sostenerlo alle elezioni, accettando di essere registrati nell’Albo pubblico delle elettrici e degli elettori”. I tanti pinocchi accorsi ai seggi, sull’onda di una furbizia organizzata dalle sensibilità post-moderne per colpire nei militanti gli ultimi volti rimasti “materialisti”, hanno fatto la differenza.
I silenzi della Gruber, dinanzi alla leader di un movimento politico che suggeriva di andare a votare per punire la volontà degli iscritti del Pd, hanno dato una mano a chi, anche da destra e senza il bisogno di leggi fascistissime, potrebbe trarre un vantaggio dalla costruzione di una doppia maggioranza sezioni-gazebo, ottenuta la quale, dietro la maschera della iper-democrazia, è possibile decretare di fatto lo scioglimento del principale partito dell’opposizione. Dopo i brindisi di circostanza, Orlando, Bersani, Sposetti dovranno forse cominciare a chiedersi se davvero sono loro i vincitori del clamoroso ribaltamento dell’esito congressuale, organizzato da diverse ma convergenti forze esterne interessate al caos e disposte a determinarlo con dichiarazioni farlocche di adesione all’albo degli elettori.
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