Antonio D’Amato è il napoletano globale. Altri imprenditori nati dalle nostre parti hanno ormai mollato gli ormeggi, richiamano le loro origini rivendicando da lontano fumose radici, mettendo in mostra la stanca mercanzia dell’appartenenza pur di non deludere gli indigeni. Lui è rimasto il ragazzo dalle passioni fredde con cui conversai più di 30 anni fa, in un libro che ancora viene citato (scusate la presunzione) quando ci si incaponisce a parlare di Napoli. Da allora il suo business ha continuato a crescere, a espandersi, a cercare nuovi mercati.

«Ma la testa delle nostre aziende è qui, le radici restano salde, Napoli la amo visceralmente. Magari la amo e la odio, come tanti, ma la verità è che la nostra città ha rappresentato, nel corso della sua storia millenaria, il vero melting pot della civiltà occidentale. È stata sintesi di culture e religioni, ha contribuito in maniera determinante alla formazione dell’identità europea. Non c’è città che abbia dato di più all’Europa, dalla Magna Grecia in poi, assorbendo, facendo sue le grandi civiltà che l’hanno attraversata. Per questo oggi a Napoli convivono sentimenti liberali, identità giacobine, pulsioni plebee…».

Ma tu riesci a trasferire questo melting pot in giro nel mondo, a valorizzarlo nel tuo modo di fare impresa?
«Assolutamente sì. È una visione aperta e trasversale che favorisce relazioni proficue con culture diverse, ci insegna a essere strategici e flessibili. L’essenziale è che questa indubbia ricchezza non ci impedisca di vedere la realtà, le contraddizioni di Napoli, le potenzialità che vengono sprecate. Per questo è fondamentale andare al di là del racconto – piuttosto mitizzato – della sua storia gloriosa, delle sue impareggiabili bellezze e affrontare con lucidità i problemi».

Delle grandi potenzialità di Napoli parlammo, se non ricordo male, proprio ne La città porosa, il libro di 30 anni fa. Siamo ancora a quel punto? Quello che è accaduto nel frattempo, compresa l’esplosione del turismo, ha fatto compiere qualche passo avanti alla città, o ha solo aumentato gli stereotipi, almeno sul piano dell’autorappresentazione?
«Il turismo è senza dubbio un motore economico importante, ma non è sufficiente. E, da solo, rischia di rafforzare gli stereotipi senza incidere sui problemi strutturali. Francesco Compagna ammoniva contro lo scarfoglismo: sia quello che idealizza Napoli con il “sole-pizza-amore”, sia lo “scarfoglismo alla rovescia” che la riduce a “caos-monnezza-camorra”. La città deve essere rappresentata per ciò che è realmente, con le sue ricchezze e i suoi limiti. Solo se guardiamo al passato e al presente senza autoassolverci possiamo concretizzare le potenzialità e costruire il futuro».

Sei piuttosto severo, come sempre…
«Io diffido di ogni ottimismo di facciata. Con l’ottimismo facilone non si va da nessuna parte. Non possiamo pensare di superare contraddizioni e debolezze grazie a qualche zero virgola in più. La vera svolta la potremo realizzare solo con un programma strutturale di sviluppo, di valorizzazione, di cambiamento anche del modo in cui si fanno le cose. Il futuro non arriverà solo perché siamo stati importanti nel passato».

E allora veniamo alle scelte concrete da fare, usciamo dal metodo. Su quali leve bisogna agire per attrarre investimenti significativi, per dare un ruolo a Napoli nel mondo globale?
«Innanzitutto c’è una decisione strategica da assumere: il vero motore dello sviluppo del paese va collocato nel Mezzogiorno, e quindi a Napoli, perché Napoli è l’emblema, l’immagine, la capitale del Sud. Il tasso di occupazione oggi nel paese è più alto che nel passato, intorno al 62%. Ma è largamente al di sotto del 70%, la soglia minima che era stata individuata con gli obiettivi di Lisbona nel 2000. Questo 60% si divide tra un 72-75% del Nord e un 42-43%, a volte addirittura il 40%, in alcune aree del Sud. Così l’Italia non riuscirà mai a mettere in sicurezza il rapporto debito pubblico/PIL, dato che il Nord può crescere solo in maniera marginale. Per questo la vera crescita va realizzata al Sud, dove abbiamo cervelli, manodopera, spazi, disponibilità. Ci vuole una politica di investimenti nazionali e internazionali che porti Napoli e il Mezzogiorno al 60% di occupazione nei prossimi 5 anni, in modo che il tasso di occupazione nazionale si posizioni al 70% e oltre. Se non realizziamo questo, l’Italia non sarà in grado di dare stabilità finanziaria anche al quadro europeo».

Investimenti in quali ambiti?
«Intanto nel grande spazio del Mediterraneo, che sta tornando centrale dopo 500 anni. Lo era, dal punto di vista politico, militare, commerciale, economico, culturale, fino alla battaglia di Lepanto. 100 anni dopo la scoperta delle Americhe, il centro del mondo si è spostato sull’Atlantico. Negli ultimi 20 anni c’è stato un riemergere di rilevanza del Pacifico, sulla spinta della globalizzazione. Ma ora il Mediterraneo ritorna a essere centrale dal punto di vista economico, politico e anche degli equilibri di pace. Il continente africano avrà 3 miliardi e mezzo di persone tra poco, con una spinta demografica colossale. È un continente ricchissimo, e cinesi, russi e altri si stanno accaparrando risorse e spazi, mentre l’Europa è stata completamente assente. In questo Mediterraneo, l’Italia può svolgere un ruolo fondamentale, facendo da traino per l’intera Europa».

In sostanza mi dici che il tema dell’attrattività del nostro territorio non riguarda questo o quel settore ma grandi fattori trasversali.
«Esatto. Affermare che il motore della crescita economica deve essere collocato al Sud vuol dire anche valorizzazione di tutte le risorse umane e intellettuali di cui disponiamo. I settori sono relativi, e non si può puntare solo su turismo o su servizi a basso valore aggiunto. Abbiamo bisogno di una maggiore presenza di aziende manifatturiere, intelligenti e innovative, con centri decisionali di ricerca e sviluppo, che incrementino la generazione di Prodotto interno lordo pro capite e creino occupazione intellettuale di livello internazionale. Così possiamo rendere il territorio nuovamente attrattivo. Innanzitutto rendendolo vivibile. Il problema della vivibilità – reale oltre che percepita – delle nostre città è serio, contribuisce a portarci fuori dal mercato. Abbiamo subito un’enorme migrazione di cervelli: i figli dei nostri dirigenti vanno a studiare a Milano piuttosto che altrove non perché le università lì siano migliori, ma perché hanno un placement migliore. Siamo tagliati fuori, dobbiamo riportare il mercato al Sud e il Sud nel mercato».

Tu parli di Napoli e Mezzogiorno come un tutt’uno. Certo, Napoli è la capitale del Sud, ma è così inscindibile il rapporto?
«Ma il Mezzogiorno senza Napoli che cos’è? E come fa Napoli a non essere trainante per il Mezzogiorno? Napoli rappresenta, nella storia dell’Europa, un punto di riferimento imprescindibile. Non c’è nessuna città italiana, nessuna città europea che abbia dato un contributo alla formazione della cultura e dell’identità europea quanto Napoli».

Ma se dici Napoli e Mezzogiorno, un attimo dopo pensi alle nostre classi dirigenti. La mia tesi – non solo mia – è che le risorse pubbliche vengono utilizzate dalla politica per alimentare il clientelismo, per finanziare il consenso, e questo non contribuisce a creare – usiamo un eufemismo – una classe dirigente di livello. Sbaglio?
«Fu la rottura traumatica della Prima Repubblica a decapitare l’ultima classe dirigente del Sud, generando fortissime tensioni antimeridionaliste. E non fu colpita solo la classe dirigente politica e amministrativa, ma anche quella economica e imprenditoriale. All’epoca furono fatte fallire migliaia di imprese, non per debiti, ma per crediti. Imprese che avevano investito sulla base di quei famigerati “accordi di programma” che non furono onorati quando l’intervento straordinario nel Mezzogiorno fu bruscamente interrotto, travolto dall’ordalia antimeridionalista. Nel frattempo il Banco di Napoli veniva di fatto regalato alla BNL, poi rivenduto con un’enorme plusvalenza al Sanpaolo di Torino, prima di essere incorporato in Intesa. Un processo che fece venir meno il soggetto fondamentale che conosceva il territorio ed era in grado di gestire quella fase di crisi. Aggiungi una lunghissima stagione, che ancora continua, di assoluta inefficacia e incapacità a spendere le risorse dei Fondi strutturali in maniera adeguata. Quando, alla fine degli anni ’90, Ciampi, allora ministro del Tesoro, organizzò a Catania il convegno sulle 100 città, lanciò l’idea dei progetti sponda per evitare che i Fondi strutturali non spesi venissero restituiti all’Europa. E chiese il supporto a Confindustria, di cui ero responsabile per il Mezzogiorno. Convenimmo allora che quell’intervento sarebbe stato una tantum e da non ripetersi più. Purtroppo fu il primo di una infinita serie di progetti sponda che, da allora a oggi, hanno caratterizzato l’inefficace gestione dei Fondi strutturali nel nostro paese».

Nel frattempo l’Europa si allargava, e altri paesi dimostravano di spenderli bene, i soldi.
«I paesi che sono entrati negli ultimi 20 anni, come Spagna e Portogallo, hanno saputo spendere bene i loro Fondi strutturali e hanno ridotto i divari socio-economici. Perché hanno deciso al centro, e poi attuato a livello regionale. Noi, con la retorica delle autonomie, abbiamo fatto decidere alle Regioni, che non avevano capacità né di programmare né di realizzare. Ora l’imperativo è che i Fondi strutturali ancora a disposizione vengano investiti finalmente in maniera efficace. È un imperativo urgente perché, con il prossimo allargamento della Ue, le risorse per i fondi strutturali del Mezzogiorno si ridurranno in maniera significativa. Bene ha fatto quindi il ministro Fitto a centralizzare tutte le risorse destinate al riequilibrio territoriale, incluse quelle del Pnrr, perché possano essere investite strategicamente, in modo coordinato e sinergico. Naturalmente poi è essenziale che l’esecuzione sia coerente con gli obiettivi e venga realizzata in maniera efficace, nei tempi e nei risultati».

E poi garantendo la gestione ordinaria e ordinata delle realizzazioni, che nel Sud manca totalmente.
«Certo! Il funzionamento del quotidiano è cruciale nel Mezzogiorno. Nei momenti di crisi, la creatività, la capacità di resistenza, i millenni di cultura che portiamo nel DNA, ci aiutano a essere flessibili e innovativi. Quello che manca è l’efficacia dell’ordinario. E anche il piccolo cambiamento di trend che abbiamo avuto in tempi recenti non è sufficiente. Fammelo dire in maniera lapidaria: dato che abbiamo ancora accesso, per poco, a risorse importanti, è questo il momento di mettere in campo una vera, radicale svolta».

Ecco che torna il giacobino che è in te, l’illuminista che conosco…
«Sai, i veri cambiamenti, le riforme, o si fanno immediatamente o non si fanno. Ed è chiaro che una vera svolta non può che partire dall’alto. Siamo in un mondo in cui la pace è seriamente minacciata, l’Europa corre il rischio di rivivere le peggiori pagine del ‘900, abbiamo una epocale pressione migratoria da governare e una crescente conflittualità interna nel Mar Mediterraneo. Aggiungi una condizione finanziaria critica e ne ricavi un quadro generale da cui possiamo rimanere schiacciati. Abbiamo un orizzonte breve per dire la nostra. Per questo è il momento di creare una grande alleanza di persone che abbiano la voglia, la capacità e la sensibilità di portare avanti un discorso di radicale cambiamento. Che è capacità di rottura dell’ordinario, di superamento delle consuetudini. D’altronde questo è il messaggio più nobile della cultura liberale, che è critica ma sempre in maniera progettuale, propositiva».

Qui si conclude la conversazione via Teams. Prima di salutarci, incappiamo in piccoli problemi tecnici (va beh, in fondo siamo due boomers…); aspettando che qualcuno ce li risolva, restiamo a chiacchierare del più e del meno, e lui a un certo punto mi fa: «Ma tu non torneresti a fare politica?». «Neppure per idea!», gli rispondo. «Tu, piuttosto?». E a questo punto il collegamento si interrompe…