Le sanzioni sono la continuazione della guerra con altri mezzi. C’è chi le demonizza perché prendono alla gola la popolazione civile e chi invece le giudica un male necessario per liberarsi del Putin della situazione, che bombarda l’Ucraina e tiene sotto scacco la popolazione civile russa di cui sopra. Il problema è che le sanzioni, nel caso di Mosca, sono una brutta bestia anche per noi. Per la nostra industria di trasformazione che tanto dipende dalle materie prime che qui non abbiamo. Tra le tante: petrolio, gas, grano, ma anche ghisa e acciaio.

Le sanzioni della Ue contro Russia e Bielorussia prendono di mira anche queste ultime due. Nota didascalica: siamo nel pieno dell’industria di base, siderurgia e metallurgia. Con queste commodity, le fonderie e le acciaierie europee realizzano prodotti semilavorati che poi confluiscono nella componentistica per infrastrutture, edilizia, automotive. Settori a monte, lontani dai prodotti a disposizione del consumatore finale. In realtà questo è vero solo in parte. Con la ghisa, infatti, si fabbricano anche pentole e dischi dei freni delle auto. Del resto, se tutta questa produzione industriale a monte non viene foraggiata da materie prime straniere, a risentirne siamo anche noi a valle.

Di conseguenza, quanto ci danneggiano i nostri stessi dazi su materie prime importate dal nemico? La risposta va spacchettata. Poco in termini congiunturali. Tanto in una prospettiva più lunga. Poco perché non c’è domanda. La crescita dell’occupazione dopa di ottimismo il governo. Le vicende dei gossip e dei complotti lo distraggono. Intanto però la produzione industriale è in calo costante. Il -0,9% di luglio su giugno è il diciottesimo dato negativo consecutivo registrato dall’Istat. Questo vuol dire che nelle nostre fabbriche le materie prime non servono in quanto non si vendono prodotti finiti. Ce lo conferma la crisi dell’auto. Il calo di immatricolazioni è parallelo a quello produttivo.

Da un punto di vista strutturale, il quadro è più insidioso. Nel primo semestre di quest’anno, sono state vendute nella Ue circa 500mila tonnellate di ghisa russa, con una diminuzione del 37,7% rispetto al 2023. I paesi acquirenti si stanno riducendo, da otto che erano l’anno passato a cinque. L’Italia resta la protagonista del commercio con Mosca, con acquisti per poco più di 370mila tonnellate di ghisa russa e una quota di mercato del 72,1%. La seguono Lettonia, Polonia, Spagna e Bulgaria. Per quanto riguarda l’acciaio, la situazione è al momento più rosea. La Russia continua a esserne fornitrice europea, commerciando con le nostre industrie attraverso paesi terzi. Quest’anno, tutti i membri Ue hanno aumentato gli acquisti di acciaio e ferro russi al massimo dal giugno 2022. Le sanzioni non ancora in vigore e la liquidità per finanziare la guerra hanno imposto a Mosca di rivedere al ribasso i suoi listini. Si è innescata così una speculazione. La Turchia acquista acciaio russo a basso costo e lo indirizza in parte alla sua industria, in parte alla nostra, ma con una correzione del prezzo. Questa non è una buona notizia. Significa infatti che le sanzioni non funzionano come dovrebbero. E che, se prima eravamo dipendenti da Putin, ora lo siamo anche da Erdoğan.

Ankara a parte, però, si arriverà presto a una chiusura netta delle importazioni russe. Le sanzioni prevedono infatti una progressiva riduzione dell’import, per arrivare a un suo azzeramento, già dal prossimo ottobre per l’acciaio, dal 2026 per la ghisa. Non è un caso che le imprese parlino di bomba a orologeria. Lo stop si sommerà ad altri costi produttivi in crescita. Quello dell’energia per prima cosa, il cui prezzo per le imprese italiane è il più alto di tutta Europa. Ecco perché, già ora, le aspettative sul 2025 non sono ottimistiche. Serve aprire nuovi canali di importazione, da mercati più lontani di quello russo e quindi più cari. Facendo inoltre sintesi delle policy di decarbonizzazione stabilite sempre dalla Ue. Serve accelerare sull’economia circolare. L’Italia è all’avanguardia. Ma il problema è continentale. E il rottame riciclato non basta a soddisfare una domanda che, prima o poi, tornerà a crescere.