Omnis definitio in iure periculosa: il dibattito sulle definizioni contenute nell’articolo 1 del ddl Zan conferma la saggezza di questo antico brocardo. Allo stesso tempo, offre l’occasione per riflettere sul modo in cui il diritto entra in relazione con la storia e la cultura di una comunità e delle soggettività che la compongono, nella loro continua evoluzione. Più specificamente, ragionare sulle definizioni contenute nel ddl Zan consente di illuminare gli obiettivi che esso si prefigge, la sua specifica funzione e dunque la sua concreta portata.

Un testo giuridico non è un trattato di antropologia. Certo, il diritto non può e non deve rimanere cieco rispetto all’intreccio tra vita, dignità, libertà e cultura; tuttavia, è necessario considerare la specifica funzione della norma, e il modo in cui essa si innesta nel sistema. Questa, secondo me, la miglior chiave di lettura per comprendere la concreta portata delle definizioni contenute nel ddl Zan, e per contribuire a sdrammatizzare alcuni eccessi del dibattito – molto acceso – su alcune di esse. La scrittura delle definizioni deriva da specifiche richieste della Commissione Affari costituzionali e del Comitato per la legislazione della Camera, nell’ottica di garantire il principio di tassatività della norma penale. Nel rispondere a quelle richieste, è stato individuato un punto di equilibrio tra l’aderenza al dato criminologico, il riconoscimento della specifica dignità delle dimensioni della personalità protette dalla norma penale e l’esigenza di non pregiudicare l’effettiva protezione delle vittime di reati d’odio.

Traccia di simile equilibrio è ben presente, ad esempio, nella assai dibattuta definizione di identità di genere. Sul punto, è bene anzitutto sgomberare il campo da un argomento ancora troppo diffuso e ribadire che l’identità di genere non è concetto nuovo o sconosciuto al diritto. Esso è già presente nella legislazione italiana, ma anche nel diritto europeo e nella giurisprudenza delle più alte Corti: in Italia, Corte costituzionale e Corte di cassazione e, in Europa, la Corte di Strasburgo, a partire almeno dalla sentenza Goodwin del 2002. Il principio di non discriminazione delle persone detenute, (anche) sulla base dell’identità di genere, è stato introdotto nella legge sull’ordinamento penitenziario in occasione della riforma del 2018. E l’identità di genere è riconosciuta dal decreto legislativo n. 251/2007 tra le caratteristiche funzionali all’individuazione dell’appartenenza a un gruppo perseguitato, ai fini del riconoscimento della protezione internazionale.

Il ddl Zan, nella scelta di questo termine, conferma acquisizioni consolidate nell’esperienza giuridica. Analogo discorso vale per la sua definizione, che non è frutto di furore ideologico o dell’impropria incursione in territori preclusi al diritto, ma è ricalcata sulle sentenze n. 221/2015 e 180/2017 della Corte costituzionale. In tali decisioni, l’identità di genere è riconosciuta quale diritto fondamentale della persona; e il suo contenuto è l’aspirazione alla corrispondenza tra il sesso attribuito alla nascita e quello “soggettivamente percepito e vissuto”. Una aspirazione che si realizza attraverso il complesso percorso delineato dalla legge n. 164/1982 e che ormai non contempla più la necessità di un intervento chirurgico di adeguamento dei caratteri sessuali primari. Nell’affermazione dell’identità di genere il dato volontaristico si affianca alla trasformazione del corpo e al concreto manifestarsi di tutto ciò nella vita sociale: percezione e manifestazione di sé, desiderio e corpi in relazione. In un percorso articolato, appunto, che non segue itinerari prefissati e ha una sua durata variabile a seconda delle singole esperienze.

Di tutto questo il ddl Zan ha dovuto tenere conto, nel definire l’identità di genere. E lo ha fatto non per fissare una volta per tutte la definizione di una condizione personale così complessa; bensì, molto più modestamente, per garantire la migliore applicazione di norme destinate a reprimere reati motivati dall’odio verso di essa e le sue concrete espressioni. Discriminazione e violenza non dipendono certo da una rettifica anagrafica. L’odio nasce dal rifiuto della non conformità di un corpo e di una esperienza di vita rispetto a un modello. Ecco perché nella definizione, si parla di “identificazione percepita e manifestata di sé” non vincolata alla conclusione di un percorso di transizione.

Si realizza così l’equilibrio tra la funzione della definizione – fornire al giudice un criterio tendenziale per l’individuazione del movente d’odio – e l’esigenza di assicurare massima protezione alle persone che subiscono discriminazione e violenza per la loro identità di genere. Al diritto, certo, non si può chiedere la parola “che squadri da ogni lato l’animo nostro informe”. Ma il diritto deve, a pena di perdere di vista la propria funzione, incontrare la vita delle persone e i loro corpi, ascoltandone la domanda di riconoscimento e giustizia.