Si continua a morire dietro le sbarre
Detenuto morto a Poggioreale, le ultime parole al giudice: “Ho la flebite, non riesco a stare in piedi”
Quale valore ha la vita di un detenuto? E quale quella di un detenuto tossicodipendente? Viene da chiederselo a sentire la storia di Antonio Alfieri, 51 anni, tossicodipendente, detenuto nel carcere di Poggioreale e morto al pronto soccorso del Cardarelli dove era arrivato venerdì scorso in condizioni disperate. In attesa di capire le reali cause del decesso, resta l’amarezza per quanto racconta il suo difensore che proprio ieri si era recato in carcere per il colloquio con il suo assistito scoprendo che Alfieri era morto, e che era morto da giorni.
Arrestato a marzo scorso a Pianura per il possesso di due pistole nascoste in uno stereo all’interno di uno scantinato, Antonio Alfieri era finito in cella per detenzione e ricettazione di armi. «Non si reggeva in piedi e aveva bisogno di cure specialistiche che il carcere non poteva garantirgli», racconta l’avvocato Mottola che aveva avanzato una prima istanza, rigettata dal giudice, e ci aveva riprovato all’ultima udienza del 28 settembre scorso, riuscendo anche a convincere il suo assistito a fare uno sforzo ed essere presente in udienza pur collegato in videoconferenza, immaginando che il magistrato, vedendolo con i propri occhi, si sarebbe reso conto delle condizioni fisiche in cui versava.
Del resto anche il SerD del carcere aveva scritto che il ricovero del detenuto in comunità era urgente, ma ogni speranza era stata vanificata senza nemmeno volgere lo sguardo al detenuto. L’avvocato Mottola ricostruisce quell’ultima udienza con dolore, parlando direttamente al suo assistito in una lettera pubblicata sui social: «Il giudice mi interrompe – racconta l’avvocato tornando indietro nel tempo di qualche settimana – e mi dice: avvocato, ma ho già rigettato analoga richiesta tre mesi fa. Io ribatto, dico al giudice che la reitero perché se alza lo sguardo verso il monitor vede con i suoi occhi la sofferenza di un uomo, tossicodipendente, abbandonato dalla famiglia, vedovo da pochi mesi. Ma niente, Antonio, non eri degno dello sguardo di chi ti stava giudicando. Poi l’ultimo schiaffo, ti interroga per sapere se rinunci al prosieguo dell’udienza e tu lanci l’ultimo grido di aiuto: “Ho la flebite, non riesco a stare in piedi”. Lui taglia: “Sì, vabbè, allora rinuncia”».
Nelle parole dell’avvocato Mottola c’è tutta l’impotenza di fronte alla freddezza della burocrazia giudiziaria. «Scusa, Antonio, ti avevo promesso che ti avrei portato in comunità ma tu, di fronte all’ennesimo freddo diniego, hai deciso che questo mondo non era più per te – aggiunge il legale – Ci siamo sentiti al telefono: “Antonio, stai tranquillo, ricorriamo al Riesame, vengo in settimana in carcere a trovarti”. “Speriamo, avvoca’, almeno voi non mi abbandonate”».
Ieri, poi, il tragico epilogo: «Alle 13 io e Antonio dovevamo incontrarci ma Antonio ha deciso di non venire, ha preferito lasciare questo mondo in cui non c’è spazio per gli ultimi. Antonio, so che la mia parola per te conta poco ma credimi che ce l’ho messa tutta». L’amarezza del giovane penalista apre una riflessione sulla rigidità della burocrazia giudiziaria, sull’atteggiamento di alcuni giudici di fronte ai casi da trattare, sulla difficoltà (più volte denunciata da avvocati, garanti, associazioni) di garantire anche a chi è in carcere la dignità della vita e la tutela dei diritti fondamentali, quello della salute innanzitutto. E così un altro fascicolo viene archiviato e un altro nome si aggiunge all’elenco dei detenuti morti in carcere.
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