Quando fu scandalosamente chiaro che Marco Biagi, prima di essere assassinato dalle Brigate Rosse a Bologna il 19 marzo del 2002, aveva vanamente chiesto la macchina blindata e la scorta – e gli erano state negate – il ministro degli Interni del governo Berlusconi, Claudio Scajola, fu costretto a dimettersi. Oggi non si capisce con quale mancanza di pudore il ministro degli Esteri non si sia dimesso, visto che anche l’ambasciatore italiano nel Congo Luca Attanasio, ucciso con il carabiniere Vittorio Iacovacci e un autista congolese, aveva chiesto da tre anni sia la scorta che un’auto blindata. La richiesta l’aveva avanzata nel 2018, un anno dopo essere stato assegnato all’ambasciata di Kinshasa. Attanasio era un esemplare “servitore dello Stato” come ha retoricamente ripetuto il ministro Di Maio che – capo della diplomazia italiana – era il suo referente e responsabile.

In un macabro e disonorevole tentativo di occultare la verità, sia la Farnesina che Di Maio si sono prontamente lavati le mani dalla responsabilità di aver lasciato morire i due servitori dello Stato, sostenendo che l’ambasciatore Attanasio, quando è stato attaccato e assassinato, non si trovava nell’ambasciata ma su un convoglio (due automobili non blindate) delle Nazioni Unite per una missione di distribuzione di cibo nelle scuole. Attanasio era su una delle due auto perché sosteneva con il massimo impegno questa missione dell’Onu e lo faceva nella sua qualità di ambasciatore d’Italia, al servizio dello Stato italiano di cui era un “fedele servitore”. Dunque, se si trovava su un convoglio dell’Onu, era lì nel pieno delle sue funzioni e non perché partecipasse a una gita.

Abbiamo riportato ieri una parte del rapporto che i servizi segreti italiani avevano da tempo consegnato al governo italiano, al ministero degli Esteri e anche all’ambasciata italiana a Kinshasa. In questo rapporto si descrive la zona in cui è avvenuto lo scontro a fuoco che ha portato alla morte dei due italiani come un territorio pericolosissimo, percorso da un centinaio di diverse bande armate, da un sedicente fronte di liberazione del Rwanda e da predatori di minerali, animali e esseri umani di ogni risma. In quella zona sono stati uccisi in cinque anni duecento dei settecento “Ranger” inviati dall’ex potenza coloniale belga. Conoscendo perfettamente la situazione, Luca Attanasio aveva chiesto nel 2018 una macchina blindata e una scorta per proteggere i suoi movimenti non soltanto nella capitale Kinshasa ma in tutto il Congo dove la sua opera di supporter delle Nazioni unite lo portava di frequente a viaggiare in nome per conto del governo italiano.

Anziché mandargli immediatamente una delle tantissime auto blindate del parco gestito dalla polizia, o dai carabinieri, o dalla Guardia di finanza, il sagace governo italiano, che già vedeva alla sua testa un avvocato, Giuseppe Conte, e alla Farnesina l’onorevole Luigi Di Maio, con velocità tutta italiana da uno vale uno (e anche nulla) scatenarono addirittura una gara d’appalto per ottenere il mezzo blindato richiesto con urgenza dall’ambasciatore, ora sepolto con tutti gli onori, salvo quello della verità. La gara è andata un po’ per le lunghe, la macchina blindata non si è mai vista, nessuna scorta armata è stata messa a disposizione del diplomatico. È quindi evidentissimo che l’ambasciatore Attanasio è morto per colpa dello Stato, ma più precisamente del governo e degli uomini che rappresentano il governo nelle sue funzioni, in questo caso il ministero degli esteri.

È stato penoso e anzi vergognoso ascoltare nelle news italiane, oltre che in Parlamento, l’oscena versione secondo cui l’ambasciatore Attanasio non poteva essere protetto dallo Stato, cioè dal ministero degli esteri e dalle decisioni del ministro Di Maio, perché “era troppo lontano dalla capitale” e dunque fuori dalla giurisdizione protettiva che lo Stato assicura ai suoi diplomatici. Evidentemente gli uomini del precedente governo-Conte, ora riavvitati sulle stesse sedie dall’attuale governo Draghi, pensano di aver fatto davvero tutto il loro dovere e di non doversi sentire sopraffatti dalla vergogna e correre a consegnare le loro dimissioni senza un attimo di dubbio. Al contrario, da quando Attanasio è stato assassinato con Iacovacci, abbiamo assistito ad una parata di espressioni patetiche e retoriche.

Si è suggerito, anzi si è dichiarato spudoratamente che ciò che era accaduto all’ambasciatore Attanasio doveva ricondursi alla sventura, all’imprevedibilità, ma più probabilmente alla scapestrata generosità, alla incauta propensione al viaggio del più giovane diplomatico italiano che – a quanto pare – aveva il vizio di correre a nome del proprio paese insieme alle missioni delle Nazioni unite a portare cibo e soccorsi ai bambini che necessitavano di aiuto nel paese in cui rappresentava più che degnamente lo stato italiano. Il confronto da fare è evidentemente quello con quanto accadde nel 2002 quando Marco Biagi fu assassinato dalle Brigate Rosse, essendo in carica il governo Berlusconi con Claudio Scajola al ministero degli interni, e si scoprì che Marco Biagi aveva vanamente chiesto scorta e macchina blindata, che però gli erano state negate malgrado l’imminente pericolo in cui si trovava il professore giuslavorista. Ci fu allora una grande levata di scudi, specialmente dalle sinistre, che chiesero a gran voce la testa del ministro degli interni per incapacità, incuria e complicità morale nell’assassinio di un innocente servitore dello Stato.

Il ministro Scajola ricevette dal presidente del consiglio Silvio Berlusconi l’incoraggiamento alle immediate dimissioni. E si dimise. Perdendo per sempre un posto d’apice nel governo e vedendo così rovinata la propria carriera politica. Ma nessuno ebbe dubbi sul fatto che le dimissioni fossero dovute e che ogni ritardo fosse una ulteriore offesa alla persona che era stata uccisa anziché protetta. Oggi siamo allo sconcio, siamo di fronte all’assurdo spettacolo di un ministro che finge di non avere capito, che si diletta nell’esprimere continuamente ossessivamente delle filastrocche di parole vane come se potessero metterlo al riparo dalle responsabilità oggettive che lui ha, e che aveva il governo di allora.

E qui la palla passa al governo di oggi. Il governo di oggi ha il dovere di guardare ciò che è accaduto e di provvedere affinché il segno di discontinuità (ma di continuità nell’onore e delle regole dello Stato) venga osservato ed onorato. E che sia realmente onorata la memoria e il sacrificio disumano di due giovani funzionari che avevano dato il meglio di sé a questo nostro paese così vergognosamente incapace di esprimere una linea di condotta morale che dovrebbe cominciare con il racconto della verità. Oggi è cambiato il primo ministro ne abbiamo uno nuovo di zecca che riluce come un diamante. Vorremmo che questo diamante non si opacizzasse. E vorremmo quindi vedere immediatamente le conseguenze delle premesse, tutte note visibili e non controvertibili. Presidente Mario Draghi, ora tocca a lei. Di Maio deve lasciare.

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Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.