Produrre i vaccini anti-Covid in Italia, vista la carenza di dosi non solo nel nostro Paese ma in tutta Europa per i ritardi nelle consegne da parte delle case farmaceutiche che hanno sottoscritto gli accordi con Bruxelles. 

Una soluzione esaminata in un vertice al ministero dello Sviluppo Economico con protagonisti il commissario per l’emergenza Domenico Arcuri, il ministro Giancarlo Giorgetti e Massimo Scaccabarozzi di Farmindustria, da cui è emerso uno scoglio importante da superare.

Il nodo in questione è semplice: l’Italia ha impianti che potrebbero essere riconvertiti per la produzione del vaccino anti-Covid, ma la scarsa presenza di bioreattori, ovvero le attrezzature fondamentali per la crescita di organismi biologici.

A monte c’è un primo problema da risolvere, quello tra le case farmaceutiche nazionali e i proprietari attuali dei brevetti, ovvero le BigPharma come Moderna, Pfizer e AstraZeneca, che hanno già ricevuto l’autorizzazione da parte dell’Ema e dell’Aifa. Le prime dovrebbero ottenere dalle secondo le licenze per produrre il vaccino, una possibilità non così difficile vista la difficoltà dei giganti del farmaco nella produzione delle dosi. 

Tornando ai bioreattori, il governo dovrà valutare se utilizzare quelli già esistenti e a disposizione di alcune aziende con sede in Italia, o ‘costruirne’ di nuovi organizzando dei siti di produzione. I tempi non giocano di certo a favore: per l’organizzazione dei centri si stima un impegno dai 4 ai 12 mesi, mentre per l’acquisizione del know how almeno 6 mesi.

Se invece si volesse affidare la produzione nazionale a impianti già in funzione, i principali ‘indiziati’ sono la Fidia Farmaceutici di Abano Terme (Padova), la Irbm di Pomezia (Roma, dove oggi vengono validati i vaccini prodotti da AstraZeneca), la Thermo Fisher Scientific di Ferentino (Roma), la Gsk di Rosia (Siena) e la Reithera di Castel Romano (Roma), dove si sta preparando il “vaccino italiano”.

Le magagne non mancano. Sono le stesse aziende a mostrare scetticismo. Secondo Piero Di Lorenzo, amministratore delegato e presidente di Irbm, “ammesso che un’azienda abbia già il bioreattore, occorrono almeno 3-4 mesi per il trasferimento tecnologico. Poi qualche mese per il training del team e si arriva a 5-6 mesi. Ma se i bioreattori non sono montati per averli servono almeno 4-6 mesi e così per partire con la produzione si arriva a circa un anno di tempo necessario per essere pronti. Non bisogna farsi illusioni”, ha spiegato ad HuffPost.

Anche la Fidia Farmaceutici di Abano Terme ha messo le mani avanti, dando disponibilità alla produzione di vaccini ma sottolineando anche “la necessità di verificare e analizzare preliminarmente la relativa documentazione a supporto, e di ricevere le autorizzazioni dagli enti regolatori italiani e internazionali”.

Nei giorni scorsi invece Rino Rappuoli, direttore scientifico di Gsk, ha spiegato che l’azienda con base italiana a Rosia, ha sottolineato che “solo Gsk ha i bioreattori, ma non per il vaccino anti-Covid, bensì per il vaccino contro la meningite che è batterico. Reithera ce l’ha ma non credo per fare milioni di dosi. La seconda fase riguarda l’infialamento e da noi molte aziende possono farlo”.

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Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.