Del discorso del presidente Draghi alle Camere c’è probabilmente poco che merita di essere ricordato. È stato, in buona parte, il solito refrain di evocazioni generali, di richiami alla supremazia democratica, di lamentazioni per la libertà violata. Quelle parole sarebbero scivolate via nello scontato consenso dei parlamentari se – nell’ultimo minuto e mezzo della replica al Senato – l’aura sobria, tranquillizzante, rassicurante del premier non avesse ceduto il passo alla dolorosa esperienza del conducator, dell’uomo chiamato al comando e che si trova a guidare un paese «indirettamente coinvolto in una guerra» come ha testualmente detto Draghi. In quel momento, in quel preciso istante il presidente ha ringraziato i senatori per il sostegno concesso direttamente a lui, trovatosi per sorte a capo del governo in un’ora così difficile per la nazione.

Nello sciogliersi della prosa gelida del professore e del banchiere, nel diluirsi delle parole rese raffinate e fluenti da anni di diplomazia e di relazioni internazionali si è colto un tratto importante non dell’uomo che è alla guida del paese in questa tempesta senza fine, ma del modo in cui percepisce lo stato della nazione. Recessione, crisi economica, rigurgiti pandemici, guerra, razionamenti idrici ed energetici sono i fantasmi che agitano i sonni della parte responsabile della classe dirigente italiana e non solo. L’Italia è “indirettamente” in guerra con una macro-potenza europea che è in grado, non solo di minacciare la nostra sicurezza, ma letteralmente di strangolare energeticamente il nostro sistema produttivo e, quindi, il benessere di milioni di persone. In questa guerra indiretta il paese sta pagando un costo crescente e, come se non bastasse, le politiche economiche e monetarie europee rischiano di assestarci colpi mortali. Il vero nemico interno è un debito pubblico che rischia di saltare, anche per l’insipienza di tecnocrati monetari inadeguati, ma come trascurare la Gran Bretagna che non vede l’ora di vendicarsi dei danni e del malessere generato della Brexit alle spalle degli ex-fratelli della UE che – con gli Usa – sta trascinando in una escalation militare senza alcuna realistica via d’uscita.

In questo falò delle speranze post-pandemiche e delle vanità di una classe politica modesta, il premier ha messo da parte il guanto di velluto della diplomazia e ha impugnato la spada dell’uomo al comando di una nazione in guerra contro i mille mali che l’affliggono. Non c’è che da esserne preoccupati. Le parole di Draghi segnano, forse, nella lunga enunciazione delle emergenze da fronteggiare e delle mete da raggiungere che ha preceduto quella franca e leale ammissione, il momento di verità che la società italiana attendeva in questi mesi di propaganda bellicista e di feticismo militarista. Alla fine siamo in guerra e, come in ogni guerra, occorre affidarsi a chi regge i destini del paese sperando che abbia visioni chiare, mente lucida, polso fermo, volontà incrollabile, resilienza morale. La pace è stata messa da parte e il tempio di Giano ha definitivamente dischiuso le porte della guerra. Una dura lezione per quelli che in questi mesi hanno indossato la mimetica sopra le pantofole da salotto e che ora devono fare i conti con un premier che chiede conforto e sostegno al Parlamento allo scoccare dell’ora di un’incerta, lontana e forse improbabile vittoria contro il declino.