Il leader leghista molla il sottosegretario
Draghi ordina, Salvini obbedisce: via Durigon, Lamorgese non si tocca

Il punto è che cercare di barattare il “caso” Durigon con il “caso” Lamorgese è come voler confondere il diavolo e l’acqua santa, incompatibili in natura, a qualunque latitudine dello spirito e lasciando perdere chi sia il diavolo e chi l’acqua santa. Sono due dossier che non possono essere trattati sullo stesso piano. Punto.
Così in queste ore Matteo Salvini sta trattando con il suo portatore di voti nel basso Lazio, l’ex sindacalista Ugl Claudio Durigon, una sua onorevole via d’uscita. Come già era successo, con motivazioni diverse, con Rixi e Siri. Sfortunato Salvini con i sottosegretari. Al tempo stesso il dossier Lamorgese non è mai stato sul tavolo di nessuno, forse neppure della Lega e semmai solo come elemento di distrazione dal caso Durigon. A breve, quello che è stato un palese duello dentro la maggioranza, si chiuderà con il passo indietro del segretario leghista e del suo sottosegretario. Si tratta di ore.
«Il tema è solo Durigon e se ne sta occupando direttamente il segretario Salvini» arriva secco il commento da palazzo Chigi dopo l’ennesima giornata in cui Durigon e Lamorgese vengono giocati al rialzo come figurine da una parte e dell’altra, il centrodestra (Lega e Fratelli d’Italia) chiede il passo indietro del ministro dell’Interno, il centrosinistra al gran completo – Pd-Iv-M5s e Leu – si è attaccato alla gola del sottosegretario economico, ha presentato mozione di sfiducia ed è sicuro di vincere il braccio di ferro in aula. Lo stop al gioco pericoloso, che va avanti da un paio di settimane, era già arrivato martedì mattina quando il premier Draghi ha voluto incontrare Salvini. Martedì sul palco del Meeting di Cl a Rimini il segretario aveva aperto: «Decideremo insieme qual è la scelta migliore per il governo e per il partito». Ieri fonti tecniche di governo ipotizzavano con “una certa sicurezza” l’imminente sostituzione del sottosegretario economico. E derubricavano a “vendette interne alla maggioranza” e a “bandierine da alzare in visto delle amministrative” l’affondo sulla ministra dell’Interno finita nel mirino su tanti fronti, dallo ius soli al rave party, dal numero degli sbarchi a più generiche questioni di pubblica sicurezza che per Salvini sono sempre state il cavallo di battaglia del suo consenso.
«È chiaro a tutti – argomentano le fonti di palazzo Chigi – che la ministra Lamorgese non possa essere accusata per la gestione dei flussi migratori. Da parte di Salvini poi…Un ministro tecnico attaccato per la gestione politica, un paradosso». E come tale strumentale e dalle gambe corte. Così come gli attacchi sullo ius soli – evocato da Lamorgese per questioni tecniche di semplificazione e parità di diritti – e sul rave party dove la falla è stata nella catena di comando locale e, più in generale, nell’assenza di una norma specifica. E comunque, così come era stato creato, il problema è stato anche risolto. Ben diversa la posizione del sottosegretario economico in quota Lega. La sua “colpa” è non aver avuto la sensibilità di capire che non si può, in un paese dove vige il reato di apologia di fascismo, pensare di intitolare una piazza di Latina ad Arnaldo Mussolini, fratello di Benito, levando il nome a due eroi civili come i giudici Falcone e Borsellino. Si tratta di un fatto specifico, oggettivo, incontrovertibile.
Leggerezza o meno, Durigon lo ha detto, lo ha auspicato e quasi promesso sul palco di un comizio a Latina alla presenza di Salvini. Irricevibili. Entrambe le cose: che il sottosegretario lo abbia chiesto; che il segretario abbia ascoltato senza commentare. Tutto questo, tra l’altro, dopo che già il Parlamento era in qualche modo passato sopra a un altro fatto grave: millantato o vero che fosse, Durigon aveva lasciato credere, intercettato, che l’inchiesta sui fondi (spariti) della Lega erano affidati “a uno della Finanza che abbiano messo lì noi”. La prima volta l’ha fatta franca. La seconda è impossibile. Al di là delle indiscrezioni è stato il ministro allo Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti ieri, sempre dal palco di Rimini, a far capire l’esito della ormai stucchevole questione.
«Quando si è investiti di responsabilità di governo bisogna essere sempre molto attenti a quello che si fa. E comunque – ha spiegato Giorgetti con i suoi ferrei e spietati sillogismi – un membro del governo si dimette o perché glielo chiede il presidente del Consiglio o il segretario del partito. Oppure, per uno scrupolo di coscienza. Io, ad esempio, mi pongo ogni giorno il tema delle mie dimissioni…». Esclusa la terza ipotesi, Salvini in persona sta trattando con Durigon in nome della tenuta della maggioranza. È possibile infatti che nel colloquio con Draghi sia emerso che la mozione di sfiducia già incardinata avrà la maggioranza dei voti in aula.
Oltre Pd, Iv, Leu e M5s, anche Coraggio Italia e altri pezzi di Forza Italia hanno fatto sapere che il tempo è scaduto per Durigon. Il concetto guida lo ha espresso ancora una volta Giorgetti. «La maggioranza deve mantenere toni bassi per quanto sia possibile anche in una coalizione eterogenea e preoccuparsi di far prevalere l’interesse generale del Paese». È il volto dialogante della Lega. Quello che piace a Berlusconi e al centrodestra di governo. E anche Salvini si deve adeguare. Ora l’importante è che Pd e M5s non facciano diventare questo passaggio come uno scalpo della loro campagna elettorale. Sarebbe un errore imperdonabile.
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