Popsophia 2022
“E se domani…”, da Proust a Mina memoria e canzonette
Per capire Proust può servire una canzone di Mina, e per capire davvero Mina non escluderei il contributo (involontario) di Proust. Ora, per spiegarvi questo teorema, apparentemente stravagante, e molto “popsophico”, sono costretto – e me ne scuso – a fare un po’ di autobiografia sentimentale. Partiamo allora da una bellissima canzone cantata da Mina: “E se domani”. Correva l’anno 1964. In realtà la canzone scritta e composta da Carlo Alberto Rossi (musicista riminese, figura storica della nostra musica leggera) venne proposta al festival di Sanremo da Gene Pitney e Fausto Cigliano, passando del tutto inosservata. Poi fu rilanciata da Mina e diventò un grande successo. Ripassiamone il testo, che ci parla dell’ansietà dell’innamorato, incerto di tutto e incline a un certo pessimismo: “E se domani / io non potessi / rivedere te…” / mettiamo il caso / che ti sentissi / stanco di me…”.
Bene, non quell’anno ma un paio di estati dopo, nel 1966, mi trovavo 14enne a trascorrere la vacanza in Liguria, a Rapallo, dove avvenne la mia educazione sentimentale. Allora – prima della rivoluzione sessuale del ‘68 – l’unico modo “per provarci” era ballare un lento, e nei locali “E se domani” funzionava ancora tantissimo, un brano evergreen. Mi ero preso una “cotta” – uso volutamente un lessico adolescenziale – per una ragazza, una babysitter di Alessandria. La invitai a ballare appunto con “E se domani”. Non ero però sicuro di essere davvero corrisposto, per quanti goffi tentativi – mai davvero assecondati – io potessi fare per stringerla. Dopo il ballo andammo di fronte al mare, e allora, in un momento di coraggio quasi eroico, le dissi “Sai, volevo dirti che mi sono innamorato di te…”. Al che lei replicò, con un raggelante sorriso: “E’ un problema tuo” (aggiungo solo che il forte accento piemontese, per me esotico, aggravò la umiliazione di quel momento). Ecco, da allora “E se domani”, canzone stupenda, si lega per me indissolubilmente a quell’attimo di assoluta frustrazione. Quando la sento mi stringe il cuore.
Perché Proust? Nella Recherche scopriamo che la memoria involontaria, assai più del ricordo volontario, riesce a darci tutta la verità nascosta di un momento che abbiamo vissuto: si attiva non solo la mente ma il corpo, tutta la nostra sensorialità. La verità è la morte dell’intenzione. Semplicemente accade. Assaggiando nel tè la madeleine il protagonista all’improvviso rievoca quel momento dell’infanzia dove appunto faceva colazione mangiando quel morbido dolcetto, e con l’infanzia ricorda tutto quel mondo di affetti, sensazioni, sogni, vibrazioni emotive. Nel sapore del dolce il profumo del tempo perduto. Ecco, “E se domani” è per me una madeleine, benché una madeleine dolorosa, incolpevolmente dolorosa. In che senso Mina mi aiuta a comprendere il meccanismo della memoria involontaria? Perché l’ascolto di una canzone ci sorprende quando non siamo vigili, quando siamo occupati a fare altro – mi viene in mente quella frase di John Lennon: “La vita è ciò che ti accade quando sei intento a fare altri piani”- , una canzone ci colpisce all’improvviso e si lega per sempre a quel momento lì della nostra vita sentimentale, bello o brutto che sia, diventandone l’eterno sigillo. Le canzoni sono la colonna sonora più fedele della nostra esistenza.
Non dico che siano la poesia di massa del nostro tempo: tra canzone e poesia c’è un limite invalicabile, per la buona ragione che una poesia (almeno nella modernità, dove prevale assolutamente la poesia letta in silenzio) deve trarre tutta la musica da se stessa, senza alcun accompagnamento. Però da un altro punto di vista la canzone oggi svolge un ruolo di supplenza rispetto alla poesia attuale, per il fatto che rappresenta emozioni della vita quotidiana, passioni elementari, epifanie ordinarie, etc. tutto ciò che spesso la poesia novecentesca ha trascurato inseguendo una oscurità programmatica o inaridendosi in abili tecnicismi, e così perdendo il contatto con l’esperienza concreta. In tal senso il Nobel a Bob Dylan mi appare, pur nella sua anomalia, giustificatissimo. Insomma: se uno esce con la propria innamorata presumo che abbracciandola non le sussurri un verso di poeti contemporanei (mi astengo dai nomi) ma, che so, una strofa di Paolo Conte o perfino di Cocciante. Ma, ovviamente, sono pronto ad essere smentito al riguardo. Viene in mente una frase di Jean Cocteau: “Attraverso le canzoni i poeti scendono in strada e toccano la gente”. Già, una poesia capace di toccare la gente, a misura della vita quotidiana, della spuma dell’esperienza.
Ma su questo argomento diamo la parola allo stesso Proust, che così si esprime in I piaceri e i giorni: “Non disprezzate la musica popolare. Siccome essa si suona e si canta molto più appassionatamente di quella colta a poco a poco si è riempita del sogno e delle lacrime degli uomini”. Una frase che negli anni ‘70 venne apposta su ogni disco della allora Rca. Curioso: in quel momento la cultura alta poteva servire a sdoganare e promuovere la cultura pop, oggi ne dubito: funzionerebbe di più, che so, una frase di Chiara Ferragni. E ancora Proust ha scritto: “Le canzoni, anche quelle brutte, servono a conservare la memoria del passato, più della musica colta, per quanto sia bella”. Questo ci riporta subito a un’altra fondamentale citazione, di Pasolini, che ne è quasi una parafrasi: “Niente di meglio delle canzonette ha il potere magico, abiettamente poetico, di ricreare un tempo perduto”. Se torno spudoratamente – vorrei farlo per l’ultima volta – alla mia vita sentimentale e a quelle estati dell’adolescenza già pronte per finire in un film dei Vanzina, non posso negare che canzoni come “Sapore di sale” (Paoli), “Una carezza in un pugno” (Celentano), “A whiter shade of pale” (Procol harum”), “29 settembre “(Equipe 84), “E la pioggia che va” (Rokes”) costituiscano altrettante madeleine, felici o dolenti, di quegli anni. Dato che si tratta della nostra emotività più disarmata, più ricattatoria, spesso più impresentabile, non si bada troppo alla qualità delle canzoni: si può andare da un vertice assoluto come “Azzurro” (Conte) al degrado assoluto, pasolinianamente “all’abiezione”, di “Se mi lasci non vale” (Iglesias).
Proust insiste sulle lacrime e sul passato. Pasolini, lo sappiamo, alle lacrime ci credeva molto, tanto da mettere in epigrafe al film “Accattone” quei versi di Dante: “Per una lagrimetta ch’el mi toglie”. Inoltre, il valore del passato, che non è solo quello che ci è successo, ma anche quello che avrebbe potuto succederci: occasioni perse per un soffio, false piste, smarrimenti, rimpianti… Dunque, una canzonetta, che ha la magia di restituircelo nella sua interezza, ci apre ogni volta a questo orizzonte più ampio, diventa un “esercizio spirituale”. Quando ascolto per caso “E se domani”, certo sento una fitta al cuore, però rimedito il testo della canzone: “E se domani / e sottolineo se / all’improvviso perdessi te/ avrei perduto / il mondo intero / non solamente te”. Ora, perché mai se uno perde la propria amata (o il proprio amato) dovrebbe perdere addirittura il mondo intero? Non siamo già qui sprofondati nel romanticismo degradato della letteratura rosa, nell’amore come impossibile risarcimento di esistenze sentite come alienate? E anzi mi chiedo: se uno dopo un rifiuto amoroso pensa di perdere il mondo intero probabilmente quel mondo lo aveva già perduto.
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