Alessandro Campi, politologo e docente universitario, insegna Scienze Politiche all’Università di Perugia e dirige “Rivista di politica”. Dal suo osservatorio umbro ha seguito da vicino le ultime elezioni.

Alle regionali sono andati male i populisti, M5S e Lega. A tutto vantaggio degli “adulti nella stanza”, Pd, Fi e Fdi. Per quale motivo?
«I populisti fanno propaganda, spesso molto efficace, sui grandi temi. L’immigrazione, il reddito di cittadinanza, il no alla cultura woke… temi che prendono piede presso l’opinione pubblica, dai talk televisivi alla rete. Il problema, quando arrivano le elezioni amministrative, è che bisogna misurarsi con i problemi concreti di ogni singolo territorio: la sanità, l’inceneritore, i trasporti, i servizi sociali ecc. Il registro solo propagandistico, se non si hanno proposte concrete su questi temi, vede per forza soccombere i partiti populisti».

Che pure hanno provato a usare il loro registro, in campagna elettorale.
«E infatti il tentativo fatto da Salvini in Emilia Romagna e in Umbria di politicizzare il voto facendone una questione nazionale è fallito. In Umbria c’è stata una grande mobilitazione di ministri, ma ha smosso veramente poco. In Emilia-Romagna si è tentato di fare polemica sull’alluvione, ma non ha pagato. Questo tentativo di fare delle elezioni locali un banco di prova politico nazionale è stata, da parte della maggioranza, un’assunzione di rischio che non ha portato frutti».

ALESSANDRO CAMPI ISTITUTO PER LA STORIA DEL RISORGIMENTO ITALIANO

Il bipopulismo cede, ma il bipolarismo no. I due poli, destra e sinistra, però convergono con le loro maggioranze al centro.
«Il fatto che si stanno definendo meglio i rapporti di forza all’interno di ciascuna delle due coalizioni è secondo me una buona notizia. Il quadro inizia a essere più chiaro. Ci sono due coalizioni all’interno delle quali c’è un egemone. È importante che ci sia qualcuno che detta la linea in modo chiaro, e che però sa trattare alla pari e senza imposizioni con gli alleati minori. Il problema con le coalizioni che avevamo prima era che – nel rapporto tra Pd e Cinque Stelle – nessuno dei due era disposto a mollare sul piano della leadership. Se ognuno pretende di essere colui che guida, non si va da nessuna parte. Al M5S rimane da decidere se fare o no questa alleanza in modo stabile. Le condizioni sono ormai chiare. I pentastellati non possono rivendicare nessuna egemonia. E come dicevo è un passo avanti importante. Da questo punto di vista possono essere elezioni chiarificatrici a livello politico nazionale».

Le parti sono state diverse, in passato. Abbiamo avuto M5S e Lega forti anche nelle Regionali. Il fatto che si rafforzino i moderati, che nel Pd vengano eletti i riformisti – campioni di preferenze sono ex renziani – e che raddoppi il suo consenso Forza Italia, indica una tendenza?
«Da questo punto di vista, soprattutto per il centrodestra c’è un altro elemento interessante: Salvini in questi ultimi mesi ha provato a radicalizzare le sue posizioni a scapito di Fratelli d’Italia. Dove Giorgia Meloni doveva restare saldamente istituzionale, europeista, atltantista, il leader della Lega ha giocato libero, richiamandosi a Trump. Con il rischio che per restare in partita Fratelli d’Italia si radicalizzasse a sua volta. Invece è successa un’altra cosa. FdI ha tenuto la sua posizione, Giorgia Meloni non ha seguito Salvini su questa strada. È stata brava perché ha tenuto la linea, portandosi dietro il suo consenso malgrado l’aggiustamento di rotta ‘istituzionale’. Il suo cammino è stato di liberazione progressiva da posizioni precedenti, imbevute di populismo. Lei mantiene – anche nei toni – una fiera distanza da quello che dice Salvini».

In questo, sta riuscendo in una operazione audace, di consolidamento del consenso in itinere, cioè mentre si riposiziona gradualmente…
«Bravissima, in questa operazione, Meloni è messa spesso in difficoltà dai suoi. Che non stanno sempre al passo. E parlo sia dei dirigenti – quelli periferici più di quelli nazionali – sia di ministri e sottosegretari, ai quali deve aver dato più di una strigliata. Perché sa che ha bisogno di una classe dirigente all’altezza delle sfide di un moderno partito conservatore europeo».

E a sinistra?
«Anche Schlein ha rifiutato di inseguire Conte sulla linea radicale. Ha saputo posizionarsi come movimentista-laburista. La vittoria in Emilia-Romagna è quella di un partito governista, percepito come affidabile nei suoi ruoli di governo. Identità anche questa importante per un pezzo di sinistra italiana. La deriva peronista non c’è stata né a destra, né a sinistra. Almeno non ad opera dei partiti principali».

Il fenomeno Bandecchi si sta già asciugando?
«Bandecchi non dà risposte politiche. Si muove solo in modo scomposto sulla scena pubblica, ma non per questo diventerà Trump o Milei. Anche loro sono degli esagitati, ma hanno dietro movimenti d’opinione molto forti. Per Bandecchi non vedo il salto di qualità necessario a diventare protagonista nazionale».

Rimane che l’offerta politica non convince tutti. Il 50% degli elettori rimane a casa.
«Va analizzato bene, il non-voto. Molta è protesta. C’e invece chi si sente appagato tanto da ritenere inutile andare a votare. Poi c’è lo swing-vote: gli elettori indecisi che entrano ed escono dal coinvolgimento elettorale. Erano rientrati con la novità del M5S. Hanno provato con la Lega. Hanno accumulato troppe delusioni e come succede in amore, dopo l’ennesima disillusione non ci si arrischia più».

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.